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Governo, il rigore e la speranza

Enrico Letta è il miglior primo ministro che in questo momento noi potessimo mandare in giro per il mondo. È giovane, credibile, simpatico conosce bene l'inglese e il francese grazie alla prima giovinezza trascorsa all'estero. Dispone inoltre della più ampia maggioranza della storia repubblicana dal dopoguerra a oggi, se si esclude l'ultima fase del «compromesso storico» (1978-1979) in cui tuttavia il Pci non aveva ministri nel governo. Ma alle spalle ha un paese ridotto sul lastrico, strangolato dall'eccesso di austerità, in cui ogni aumento di tasse (si guardi l'Iva) produce un gettito inferiore alle attese perché incide negativamente sull'economia. Questo paese ha un disperato bisogno di speranza e non bastano per accenderla le calorose perorazioni che il presidente del Consiglio fa ogni giorno. Servono i fatti. Serve il «fare», se usiamo un verbo caro a palazzo Chigi.
I provvedimenti di sabato scorso sono un primo, importante segnale. Ma sono soltanto l'antipasto di un pranzo ancora tutto da servire, con portate ancora tutte da decidere. Qui si misurerà la forza e l'abilità del governo. È impensabile che nel consiglio europeo di fine mese Letta «sbatta i tacchi» per mettersi sugli attenti davanti alla signora Merkel, come sospetta Berlusconi. La Cancelliera dispensava baci anche a Berlusconi e a Monti, ma glieli mandava di traverso una volta seduti al tavolo delle trattative. Esattamente un anno fa, nella notte tra il 28 e il 29 giugno 2012, Mario Monti dovette bloccare con un veto il patto per la crescita già pronto per la firma dei 27 stati membri e lo tenne in piedi fino a quando la Merkel non accettò lo scudo antispread che poi per mano di Draghi fermò la speculazione. Temiamo che Letta debba prepararsi a un gesto analogo se a Bruxelles trovasse difficoltà nel far passare un rapido e cospicuo finanziamento per il lavoro giovanile. L'anno scorso avevamo ancora una terribile crisi finanziaria, quest'anno viviamo una tremenda crisi sociale. Se un uomo accorto e prudente come Guglielmo Epifani l'altra sera a «Porta a porta» ha ammesso di non poterne più della esasperante lentezza delle procedure europee e ha invitato Letta a far uso del veto se fosse necessario a ottenere quel che legittimamente chiediamo, vuol dire che davvero siamo al punto di non ritorno. Letta ha fatto bene a confermare in sede europea che l'Italia manterrà fede al vincolo di contenere il deficit annuale entro i limiti del 3 per cento del prodotto interno lordo anche se sette paesi (tra cui la Francia e la rigorosissima Olanda) hanno avuto il permesso di sforare avendo un debito inferiore al nostro. Ma questo deve avere una solida e immediata contropartita, altrimenti sarà molto difficile al presidente del Consiglio spiegare agli italiani la necessità di tanti sacrifici.
Ieri il G 8 ha concluso i suoi lavori facendo la fenomenale scoperta che «al rigore debbono accompagnarsi politiche per la crescita». Lodevole intenzione, naturalmente, ma a noi servono fatti. Altrimenti, diceva Mina a un fatuo corteggiatore, sono «parole, parole, parole, soltanto parole». Si inserisce qui la «provocazione» di Berlusconi: si sfori, tanto non ci cacciano. Quella che è stata vista come una mina messa sotto la sedia del premier impegnato al G8 può paradossalmente venirgli utile: attenta Angela, può dire Letta alla Merkel: se non liberiamo un po' di investimenti e non liberiamo il lavoro giovanile, finirai col dar ragione al tuo amico Silvio che mi invita a far saltare il banco, ricordando agli italiani che versiamo all'Europa 18 miliardi per averne di ritorno soltanto 10. È un discorso un po' grezzo, naturalmente, ma quando si ha fame non si va tanto per il sottile. Al tempo stesso, tuttavia, Letta e Alfano dovrebbero al più presto asciugare i 33 miliardi di aiuti alle imprese per cavarne il necessario a ridurre il costo del lavoro. Non tutte le battaglie, infatti, si vincono a Bruxelles...

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