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La Sicilia anticipa, l’Italia si adegui

Da oggi non esistono più le province siciliane. Anche se il futuro è ancora tutto da scrivere, oggi si chiude certamente un'epoca

di LELIO CUSIMANO

Da oggi non esistono più le province siciliane, intese almeno come contenitore unico di funzioni, servizi e personale. Anche se il futuro è ancora tutto da scrivere, oggi si chiude certamente un'epoca. C’è un dato positivo da riconoscere indubbiamente. Abolendo le Province, la Sicilia anticipa virtuosamente l’Italia. Dove ancora le Province restano (è necessaria una riforma costituzionale) e dove aspettiamo ancora che in concreto si proceda alla riduzione di queste strutture come deciso da Mario Monti. Tuttavia non è detto che l'auspicata riduzione dei costi possa trovare concreta attuazione nel modello di gestione che verrà. Le province della Sicilia, come è noto, saranno sostituite nei compiti e nelle funzioni dalle Unioni di Comuni. Ma a ben vedere i comuni siciliani non sono proprio un modello di buon funzionamento. «Problematica». Cosi la Corte dei Conti definisce la situazione finanziaria dei comuni e delle province siciliane che sopravvivono grazie ai trasferimenti statali e regionali. Nel caso delle province il 58% delle spese viene coperto appunto con trasferimenti statali e regionali, mentre il 55% della spesa serve soltanto per pagare gli stipendi e le rate in scadenza dei debiti esistenti. A questo riguardo va sottolineato che le province siciliane porteranno in dote ai comuni un debito complessivo molto vicino ai 400 milioni di euro. Quando le strutture provinciali cederanno effettivamente il passo ai comuni, il debito esistente costituirà un problema, che sicuramente troverà pochi interessati a farsene carico. Tra debiti propri, debiti fuori bilancio e patto di stabilità, il debito riveniente dalle province produrrà pesanti contraccolpi. Certo meno difficile sarà distribuirsi le «spoglie» in termini di patrimonio immobiliare delle province ma principalmente in termini di gettito garantito sotto forma di tasse sulle compravendite di auto o di addizionali sui consumi energetici. Secondo una recente indagine, le province siciliane avevano 6.266 dipendenti alla fine del 2011. Per avere un termine di paragone, nella media italiana si contano nove impiegati provinciali ogni dieci mila abitanti, mentre il Sicilia se ne contano dodici, come dire il 33% in più. Insomma è la solita storia; quando il datore di lavoro è la pubblica amministrazione, i dipendenti sono sempre esorbitanti. Al contrario gli impiegati provinciali della Sicilia risultano i meno pagati in Italia; rispetto alla media nazionale guadagnano infatti il 10% in meno, ma rispetto ad esempio al Molise la forbice si allarga ben oltre il 20%, a sfavore ovviamente dei siciliani. Insomma questa storia ricorda molto da vicino quella degli insegnanti italiani i quali, nel confronto con il resto d'Europa, risultano essere il 25% in più mentre guadagnano il 20% in meno! Ma a parte la questione dei debiti e del personale, un'altra tegola rischia di abbattersi sugli ignari comuni siciliani, chiamati ad ereditare quel che resta delle province. La questione riguarda le società partecipate, anch'esse con il loro consueto corollario di debiti e di un sovraccarico di personale. Ovviamente non tutte le «partecipate» provinciali sono deficitarie, ma certo preoccupa che in Sicilia, comuni e province detengano complessivamente 164 partecipazioni in società di capitale, che ben 122 di queste si appartengano alle province e che più della metà di queste ultime, ben 63 società, siano strutturalmente in perdita. Peraltro, come se non bastasse, le società partecipate detengono a loro volta quote di partecipazione in altre società, in una sorta di gioco di scatole cinesi di cui non si vede il fondo e di cui principalmente non si conosce l'impatto che potranno determinare sui fragili bilanci dei comuni siciliani. Si fa presto a dire le province non ci sono più; e quello che ne resta? Lo scioglimento di Giunte e Consigli è un passo importante. Ci aspettiamo adesso una definizione delle funzioni più efficiente da parte dei nuovi enti intermedi, una spesa più razionale e meno sprecona, un adeguato impiego del personale. Confidiamo che la svolta finalmente si realizzi.

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