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Boldrin: «Italia in crisi non per l’euro ma perché non ama il cambiamento»

Secondo l’economista: «Svalutare la moneta è una delle forme occulte di riduzione del valore reale dei salari»

L'euro c'entra poco con la crisi dell'Italia e, più in generale dell'Europa del Mediterraneo. «Il problema vero è la resistenza al cambiamento». A parlare Michele Boldrin, 56 anni, economista laureato a Ca' Foscari che da trent'anni lavora negli Usa. Dal 2006 alla Washington University in St Louis. In Europa il Direttore Esecutivo di Fedea (il think tank spagnolo con maggiore reputazione), Tuttavia non ha troncato i legami con l'Italia: è uno degli animatori di NoisefromAmerika, il sito che raccoglie le opinione di alcuni economisti italiani emigrati all'estero. Insieme a Oscar Giannino e a Luigi Zingales ha dato vita al movimento «Fermiano il declino». È in Sicilia per presentare un libro scritto con il collega Davide Levine ("Abolire la proprietà intellettuale" Laterza). Venerdì a Palermo, parteciperà anche ad un seminario sull'economia del Mediterraneo.

PROFESSORE VEDIAMO: FORSE LA CRISI NON SARÀ COLPA DELL'EURO, MA È ANCHE VERO CHE SENZA LA MONETA UNICA SAREBBE STATA POSSIBILE LA SVALUTAZIONE PER RIMETTERE A POSTO I CONTI. ORA NON È PIÙ POSSIBILE. CHE FACCIAMO?
«Cominciamo con il togliere di mezzo un po' di confusione. Punto primo: le svalutazioni non servono a nulla. Il "boom" economico è avvenuto con il regime dei cambi fissi e in quegli anni l'Italia è cresciuta come mai in precedenza. L'unico vero aggiustamento del cambio c'è stato nel '92 quando la lira uscì dallo Sme: guardando indietro possiamo dire che non è servita a nulla. Tant'è che, vent'anni dopo siamo di nuovo a chiederci se valga la pena restare nell'euro. Punto secondo: quanti le invocano, soprattutto a sinistra, come medicina per alleviare le pene dei lavoratori dovrebbero ricordare che le svalutazioni sono delle forme occulte di riduzione del valore reale dei salari».

PERCHÉ?
«Perché i prodotti di importazione costano più cari e quindi se ne possono acquistare di meno. Contemporaneamente le esportazioni valgono meno e quindi viene deprezzato il lavoro italiano».

PER LA VERITÀ I NOSTALGICI DELLA LIRA NON SONO SOLO A SINISTRA. RENATO BRUNETTA HA SCRITTO UN ARTICOLO PER RICORDARE CHE LA BULGARIA, AVENDO ACCETTATO IL PIANO DI RISANAMENTO IMPOSTO DAL FONDO MONETARIO È OGGI IL PAESE PIÙ POVERO D'EUROPA MENTRE L'ARGENTINA, DOPO IL DEFAULT DEL 2002 CRESCE DEL 7-8% L'ANNO. CHE COSA RISPONDE?
«Dico che Renato Brunetta così come Giulio Tremonti non devono essere ascoltati. La Bulgaria oggi è il Paese più povero d'Europa? Perché prima che cos'era? Sull'Argentina, evidentemente Brunetta deve aver perso un giro o ha preso troppo sul serio le favole del Presidente Cristina Kirchner. Sui giornali di questi giorni c'è la notizia che il paese è nuovamente sull'orlo del baratro».

DIFENDE L'EURO?
«Certo che lo difendo. Il problema non è la moneta, ma le classi dirigenti che hanno guidato il Paese negli ultimi vent'anni».

UN ALTRO ISCRITTO AL PARTITO DELL'ANTI-POLITICA?
«Non c'entra la politica o tanto meno l'anti-politica che proprio non mi appartiene. È solo un problema di numeri. Il cosiddetto "dividendo" dell'euro ammonta a circa 500 miliardi: si tratta dei risparmi sui tassi d'interesse realizzati dall'Italia fra il 1995 e il 2010. Negli stessi quindici anni abbiamo ottenuto 250 miliardi in più di Pil, soprattutto grazie agli emigrati che hanno fatto crescere la popolazione e, lavorando, anche la ricchezza».

E ALLORA?
«Allora queste risorse sono state sprecate dalla classe politica per accrescere il consenso. Poteva utilizzarli, come hanno fatto altri, per investire nella modernizzazione del Paese e nella riduzione delle tasse. Invece sono stati dissipati. E adesso siamo qui a chiederci come fare ad andare avanti».

LEI HA QUALCHE IDEA IN PROPOSITO?
«L'unica ricetta è quella del cambiamento. Questo ormai è un Paese che si è adagiato sui suoi privilegi e sulle proprie arretratezze. Non ha più voglia di sfide. È schiavo dei propri privilegi, grandi e piccoli. Pensa solo al proprio orticello. Ormai gli italiani dicono no a tutto: alla Tav, alle riforme e a qualunque innovazione. Siamo diventati il Paese delle lobby e delle corporazioni».

PROBABILMENTE TANTI ANNI DI WELFARE MOLTO CONFORTEVOLE HANNO TOLTO AGLI ITALIANI LA VOGLIA DI COMPETERE: IN FONDO PENSA A TUTTO LO STATO E QUINDI PERCHÉ FATICARE?
«Per una ventina d'anni, dalla fine della Guerra a metà degli anni '60, l'Italia aveva ottenuto grandissimi successi, sia in campo economico, sia nella ricerca e nell'innovazione. Poi la produttività ha cominciato a calare e adesso siamo come una noce nel mortaio. Dobbiamo fronteggiare i tedeschi che, in un ciclo di lavorazione producono una Audi e noi una Punto. Oppure con i vietnamiti o i cinesi, nel campo del tessile, che hanno costi del lavoro pari a un decimo del nostro. Se non riparte la produttività il declino è assicurato».

PERCHÉ?
«Gli elementi sono molteplici. Certamente l'invadenza dello Stato ha giocato un ruolo fondamentale. La spesa pubblica è cresciuta in maniera esponenziale senza creare ricchezza. Basti pensare all'istruzione. È una delle voci più importanti del bilancio statale eppure nei test internazionali i nostri quindicenni risultano, mediamente, meno preparati dei loro coetanei turchi. L'idea che emerge è quella di un Paese che, essendo stato in grado di offrire al mondo una personalità eccezionale come Leonardo da Vinci cammina con la testa girata. Solo è il passato è bello. Il presente è brutto. Il futuro un pericolo».

PROFESSORE SCADIAMO NELLA SOCIOLOGIA UN TANTO AL CHILO?
«Allora le faccio un esempio concreto che spiega la resistenza degli italiani al cambiamento. Prendiamo la differenza che c'è fra la cassa integrazione e il sussidio di disoccupazione. Sono due sistemi radicalmente diversi di affrontare il problema del dipendente che perde il lavoro».

IN CHE COSA CONSISTE LA DIFFERENZA?
«Il sussidio di disoccupazione è uno strumento dinamico. Lo Stato dice al lavoratore: hai avuto la sfortuna di perdere il posto. Non è colpa tua ma delle ondate del mercato. Sostengo il tuo reddito mentre cerchi un'altra occupazione e, magari finanzio corsi di formazione per prepararti al futuro. L'assistenza è a tempo determinato e in alcuni Paesi come l'Olanda, chi rifiuta un'offerta viene immediatamente privato dell'assegno. Sarà un caso che i Paesi dove c'è questo sistema la disoccupazione è molto bassa?».

LA CASSA INTEGRAZIONE INVECE?
«La logica è esattamente opposta. Lo Stato che dice al lavoratore: non preoccuparti e non affannarti a cercare un'altra sistemazione. Passata la bufera la tua azienda ripartirà e tu potrai tornare serenamente al tuo posto. Nel frattempo la paga è assicurata. Capite bene che si tratta di tutt'altra cosa rispetto all'assegno di disoccupazione. Perché l'azienda in tantissimi casi resta chiusa, la promessa non viene onorata ma nessuno è stato incentivato a cercare altre soluzioni».

A QUESTO PUNTO NON È NEMMENO UN FATTO ECONOMICO MA CULTURALE.
«È quello che dicevo prima. Un intreccio perverso da cui chi può scappa. Io sono andato via perché non avevo più calli sufficienti nella mano per fare il portaborse all'Università. Una volta la fuga era un fenomeno elitario. Ora vedo che si sta espandendo a vista d'occhio. Chi può va via. Senza un cambiamento radicale chi potrà fermare il declino?».

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