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«Follia e spregiudicatezza: è ora di rivedere il sistema»

Misero il paese che deve rimpiangere il passato. La classe politica del dopoguerra aveva i De Gasperi e i Togliatti, i Nenni, i Saragat e i La Malfa. I moralizzatori si chiamavano Arturo Carlo Jemolo, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio. La destra intelligente aveva Leo Longanesi e l'ancor giovane Montanelli. Naturalmente né De Gasperi, né Togliatti né gli altri leader citati erano immuni da errori. Ma il loro calendario era tarato sui decenni, non sulle ore. Avevano la visione e per questo erano statisti, anche se De Gasperi aveva in mente un'Europa legata all'America (e la fondò con Adenauer e Schumann) e Togliatti guardava alla Jugoslavia, comunista con qualche goccia di eresia.
Se l'Italia del dopoguerra passò dalla crisi tremenda del '45-47 al miracolo economico che si estese fino al '61 il merito è soprattutto loro, capaci di coinvolgere nella rinascita un popolo desideroso di benessere e capace di procurarselo. Lo fecero l'uno al governo, l'altro con una opposizione durissima in Parlamento, ma complice nei luoghi di lavoro. Il regionalismo concepito in Costituzione, ma ritardato fino al '70 dai democristiani che non volevano consegnare ai comunisti pezzi pregiati di paese, appagò le diversità e l'autonomismo caratteriale degli italiani ciascuno dei quali si considera uno stato a sé. Ma riguardato quarant'anni dopo è un mezzo disastro. Qui non si vuole gettare insieme il bambino con l'acqua sporca perché è noto che esistono regioni virtuose. Ma nel 2001 fu compiuto un errore madornale, con la riforma del titolo quinto della Costituzione, allargando le competenze regionali a tutto quello che non è tipico dello stato centrale (difesa, moneta, giustizia). Dinanzi allo spettro di una nuova vittoria di Berlusconi, il centrosinistra tentò di sedurre la Lega affidando alle regioni competenze che richiedono una mano centralistica, come le infrastrutture e l'energia, ma perfino l'ambiente e il turismo. Perse ugualmente le elezioni e il disastro è rimasto.
Così chi vende il marchio Italia ha molti meno soldi di chi vende il marchio Lucania, esposto in un memorabile striscione all'aeroporto di Dubai. I nostri presidenti di regione hanno il consigliere diplomatico e ambasciate nel mondo. Quando anni fa chiesi al console generale d'Italia a New York chi fosse il politico italiano che conosceva meglio mi rispose: «Bassolino». Bassolino?! «Sì, perché sta sempre qui…». Il caso Fiorito è la diretta conseguenza di questa lunga e inguaribile follia. Un malinteso autonomismo ha indotto i consiglieri regionali a guadagnare più dei parlamentari nazionali, arrivando a stabilire una buonuscita variabile tra i 38mila e i 54/56 mila euro lordi per ogni legislatura con la sola eccezione della Lombardia che l'ha abolita, mentre la sola Umbria si ferma a 33.500 euro.
I consiglieri del Lazio (tutti) sono arrivati alla spudoratezza di andare in pensione a 50 anni, mentre l'Italia ha appena avviato la più dura riforma pensionistica d'Europa. (A mia domanda, la presidente Polverini ha promesso che con un qualche marchingegno istituzionale cercherà pur dimissionaria di far abolire la norma). I presidenti delle regioni hanno cercato di arginare la furia popolare accettando di ridurre di 330 unità i 1113 consiglieri attualmente in servizio. Ma questo era già previsto dalla riforma Tremonti.
Il ministro Patroni Griffi vuole portare subito in Parlamento una riforma costituzionale per togliere alle regioni il potere di decidere almeno su infrastrutture e energia che sono fonte di continui contenziosi con lo Stato, ma dubitiamo che i tempi glielo consentano.
Resta fortissimo il rimpianto di non aver seguito giusto vent'anni fa i consigli di Marcello Pacini che per conto della Fondazione Agnelli propose di istituire dodici macroregioni: Piemonte, Valle d'Aosta, Liguria; Lombardia; Triveneto; Emilia Romagna; Toscana e Umbria; Marche, Abruzzo e Molise; Lazio; Campania; Puglia e Basilicata; Calabria; Sicilia e Sardegna. Qualcuno suggerì di portarle ad otto, accorpando di più soprattutto le regioni del Sud. E mai come in questo momento rimpiangiamo il centralismo statale.

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