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Regione, precari e dipendenti: una giungla che soffoca i conti

Nel rendiconto del giugno scorso, la Corte dei Conti dedica molte pagine alla questione del personale pubblico nella nostra regione e lo fa con toni critici, mettendo in guardia dai pericoli del mancato rispetto dei «vincoli di finanza pubblica»

Con i tempi che corrono, prima o poi sarebbe dovuto succedere. Il governo di Roma ha deciso di ridurre il numero dei dipendenti pubblici e chiede alle regioni italiane di fare lo stesso. Per decenni le forze siciliane di Governo hanno «lottato» contro la mancanza di lavoro, brandendo una sola arma: la clava dell'impiego pubblico. Lo hanno fatto facendo passare un messaggio distorto, che si trattasse di una sorta di ammortizzatore sociale, un modo quindi per erogare un contributo alla sopravvivenza. Molto si potrebbe dire su questa teoria e sulle modalità con cui è stata attuata, ma oggi qualunque analisi non darebbe alcun contributo alla soluzione di un problema divenuto quasi irrisolvibile: l'eccesso di personale pubblico dipendente e la insostenibilità dei relativi costi.
Un problema grave nel nostro Paese e molto grave in Sicilia. Nel rendiconto del giugno scorso, la Corte dei Conti dedica molte pagine alla questione del personale pubblico nella nostra regione e lo fa con toni critici, mettendo in guardia dai pericoli del mancato rispetto dei «vincoli di finanza pubblica» e delle «esigenze di salvaguardia del bilancio», ma stigmatizzando in particolare «il disallineamento tra le professionalità acquisite e gli effettivi fabbisogni».
Nella vulgata corrente il personale regionale ammonterebbe a circa 20 mila unità. Come vedremo attraverso i dati della Corte dei Conti, la realtà risulta molto diversa. Il numero dei dipendenti regionali assomma in realtà a 21.005 unità, cui occorre però aggiungere 16.098 pensionati. La Regione infatti paga direttamente il personale in quiescenza. In tutto quindi i regionali sarebbero «appena 37.103 unità con un costo annuale di 1,7 miliardi di euro. Il dato - osserva la Corte dei Conti - non tiene conto però degli ulteriori oneri che gravano sul bilancio regionale, «come ad esempio quelli per il pagamento delle retribuzioni del personale in servizio presso le società partecipate o di quello stagionale del corpo forestale ed ancora del personale regionale che presta servizio nell'interesse della Regione Siciliana, di quello comandato presso gli uffici giudiziari, del personale delle scuole regionali, nonché di quello alle dipendenze degli enti di formazione e di quello in servizio presso altre amministrazioni dell'Isola».
Per non annoiare il lettore con una noiosa elencazione ci limiteremo ad una sintesi. Si tratta di personale, comunque a carico del bilancio regionale, impiegato tra l'altro, presso Aran, Arpa, Fondo pensioni, Resais, Eas, Esa, Italter-Sirap, attività di catalogazione, protezione civile, province regionali, comuni, aziende sanitarie, Ipab, Camere di Commercio, Iacp, Università ed Enti vari. A queste vanno poi aggiunte le unità di personale addette alla sanità (il cui costo è per metà a carico dello Stato) e quelle al servizio 118.
E poi ci sono i precari che premono alle porte. Secondo un'indagine del Formez nel 2009 oltre la metà (51,2%) di tutto il personale pubblico «regolarizzabile» in Italia, si trova in Sicilia. Con qualche fatica e considerando margini di errore ed alcune mancate quantificazioni, si arriva, sulla scorta dei numeri forniti dalla Corte dei Conti, ad una stima di 150 mila unità, a qualunque titolo a carico della Regione, ivi includendo i precari che premono per la stabilizzazione, e con un costo complessivo stimabile che si avvicina ai 4 miliardi di euro. Auspicare tagli generalizzati per queste persone - perché di persone parliamo e non di numeri- sarebbe ingiusto oltre che spocchioso. Decine di migliaia di donne e di uomini svolgono con dedizione e lealtà il proprio lavoro. Ma certo sussiste una paradossale contraddizione che va affrontata: in Sicilia c'è, da un lato, un problema di sovradotazione e, dall'altro, di assenza di profili professionali adeguati. Ed i nostri giovani migliori emigrano. Oggi i Paesi europei, ed in particolare Spagna ed Italia, sono sotto gli effetti di un virulento attacco speculativo. L'incertezza la fa da padrona. Nella prossima primavera il nostro Paese sarà chiamato al voto. Ma non si vedono ancora le possibili aggregazioni politiche che dovrebbero dare vita, dopo le elezioni, ad una maggioranza; non si delineano chiaramente i leader; non emerge un orientamento chiaro a favore delle irrinunciabili politiche di rigore; non abbiamo la (tanto attesa) nuova legge elettorale; non si concorda sul percorso delle riforme costituzionali.
Nella "strana" maggioranza che governa il Paese anche i partiti maggiori si disarticolano tra «montiani» ed «antimontiani». Ma se questo scenario lascia perplessi ed insicuri gli italiani, che effetti può produrre sugli investitori stranieri e sui grandi fondi internazionali ai quali chiediamo di comprare i nostri titoli pubblici? In Sicilia gli ultimi mesi hanno visto prevalere tensioni e schermaglie politiche. Solo da poche ore si ha notizia di una exit strategy, un percorso pluriennale per uscire dalla condizione attuale. È la spending review applicata ai conti pubblici regionali. Siamo ancora alla primissime anticipazioni, ma certo si tratta di un provvedimento forte che potrebbe avviare una svolta. Come hanno mostrato gli eventi più recenti, la Sicilia non è a rischio bancarotta, né il debito rappresenta un pericolo immediato, ma il quadro complessivo presenta molte criticità: dal costo del personale, alla rigidità della spesa corrente, al mancato impiego dei fondi europei. Siamo sotto osservazione. L'opinione pubblica italiana ci guarda, i media ci criticano, le agenzie di rating ci studiano, i mercati ci potrebbero punire.

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