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Ma a Palermo si vuole cambiare?

I protagonisti della protesta possono ottenere attenzione e solidarietà solo cambiando il metodo della protesta stessa e riflettendo sulle ragioni di quella crisi di cui tutti siamo vittime e responsabili

Guardavamo ieri da largo degli Abeti questo corteo scorrere lentamente lungo via Duca della Verdura, scortato da carabinieri, polizia e guardia di finanza; poi fermarsi a bloccare il traffico all’incrocio con via Libertà per 10-15 minuti, mentre da un altoparlante partiva un ossessivo invito ai palermitani affinché si unissero al loro sciopero. Guardavamo perplessi e avremmo voluto chiedere agli operai Gesip, protagonisti della manifestazione: ma cosa fate voi per i palermitani, se non offrire loro le proteste che conosciamo da anni e che deliberatamente orientate contro la città? La sensazione data da quel corteo ieri, in una giornata in cui i blocchi si sono poi ripetuti altrove, era piuttosto che l’effetto prodotto fosse di segno opposto. Non si vuol proprio cambiare. Chiedere solidarietà alla città può essere giusto, noi nulla abbiamo contro i lavoratori che stanno protestando in questi giorni, ci rendiamo perfettamente conto che migliaia di famiglie non possono essere mandate allo sbando. Il punto è però un altro: i protagonisti della protesta possono ottenere attenzione e solidarietà solo cambiando il metodo della protesta stessa e riflettendo sulle ragioni di quella crisi di cui tutti siamo vittime e responsabili. E cambiare significa cominciare col chiedersi come e in che misura sono finora stati spesi i tanti soldi arrivati negli ultimi anni dalle stanze romane, da governi amici alle amministrazioni della città.


Oggi davvero si può ritenere che possano ottenersi nuovi esborsi senza prima modificare la fisionomia di questa annosa vicenda Gesip? È necessario accertare l’utilità delle mansioni assegnate a ogni lavoratore, è necessario controllare i livelli di produttività, soprattutto in una città in cui c’è troppo personale a carico del pubblico, ma mai dove serve davvero. Bisogna insomma lavorare di più e meglio, piuttosto che insistere ancora su vecchi sterili e dannosi schemi. Rimaniamo d’altro canto sorpresi anche dal fatto che la stessa politica sembra non voler cambiare. Siamo colpiti dal dibattito che vede protagonisti livelli autorevolissimi. Con il presidente della Regione Raffaele Lombardo che dice di voler aiutare Gesip facendo intravvedere la possibilità di nuovi finanziamenti. E con il leader del Pdl a Palermo Francesco Scoma che diffida da queste promesse e lo sfida a tirare concretamente fuori i soldi, dimostrando di fare sul serio. Altro metodo che non possiamo accettare. I finanziamenti devono essere finalizzati a obiettivi e piani precisi, senza ripetere il solito copione che ci vede ogni anno a chiedere nuovi stanziamenti per alimentare nuovi deficit e reiterare nuove formule lontane dai bisogni reali della città. Non è più possibile. Dobbiamo capire che l’intera concezione di finanza pubblica è in crisi, in Europa, in Italia, nella Regione, nei singoli Comuni.


Nulla può essere più uguale a prima. Adesso si deve ragionare affinchè il problema Gesip diventi la risorsa Gesip. Eppure nessuno sembra rispondere a questa esigenza, governi, opposizioni e candidati. E così non si può continuare. A Palermo non ci si deve rassegnare al silenzio. Ieri abbiamo vissuto una giornata che ha rari precedenti, fra blocchi stradali in una città sommersa dai rifiuti e rallentata nei suoi spostamenti dallo sciopero degli autobus. Tutti parlano di quali innovazioni è possibile introdurre nell’amministrazione della Palermo di domani, senza tenere conto del fatto che, lo ricordiamo ancora una volta, non ci sono risorse nuove. Facile confidare in nuovi finanziamenti. Ma non ce ne sono.


E allora ci si industri per rendere produttive le aziende partecipate, risparmiando sui costi. Non ci sono alternative. Ed è bene che, davanti a questa consapevolezza, ciascuno si impegni nel proporre soluzioni concrete, uscendo tutti quanti dall’attuale assordante silenzio. Guardiamo con soddisfazione alla Chiesa, a Confindustria o a Confcommercio che il silenzio lo hanno rotto. Ma è giusto che lo facciano pure i sindacati, le organizzazioni professionali, le forze sociali di ogni genere. Uscire dal silenzio, svegliarsi dal torpore, non consentire la guerriglia. Comprendiamo i disagi e i bisogni di questa gente. Ma tutti devono essere uno con l’altro verso il nuovo. Non uno contro l’altro, ciascuno rivendicando il mantenimento del vecchio.

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