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La politica ancora in ritardo tra pensione e flessibilità

Un consiglio dei ministri entro giovedì prossimo. È questa sostanzialmente, la novità emersa dall'incontro di Berlusconi con Confindustria e sindacati insieme alla conferma che verrà modificata la Costituzione per inserire l'obbligo del pareggio di bilancio nel 2013. Per il resto niente. Inutile dire che, di fronte alla gravità della situazione, era lecito attendersi una risposta più alta. Invece non è arrivata. Segno che all'interno della maggioranza non c'è ancora identità di vedute sui contenuti dell'aggiustamento della manovra. La Lega si oppone a qualunque intervento sulle pensioni. Berlusconi non vuole nemmeno sentir parlare di imposta sul patrimonio o di tassazione aggiuntiva: piuttosto è pronto a dimettersi. Non è certamente confortante vedere i due principali partiti della maggioranza separati da un dissenso così profondo. Così il Paese e i mercati brancolano nel buio. Non è un caso se poi Piazza Affari si conferma la peggiore Borsa d'Europa con un ribasso che supera il 6%.



Purtroppo dal fronte dell'opposizione non arrivano segnali di maggior conforto. Anche su questa frontiera si vedono le divisioni fra una componente riformista disponibile al dialogo su fatti concreti e l'ala più radicale guidata dal segretario del Pd, Bersani, che insiste sulla pregiudiziale del cambio di governo. Insomma quello che emerge è una inadeguatezza complessiva della classe politica nazionale alla sfida dell'emergenza.
La crisi divampa da mesi ma ancora non è stata trovata una risposta all'altezza. La manovra approvata il 6 luglio è stata un argine assai esile. Tant'è che dal giorno successivo al voto si lavora per rafforzarla. Senza risultati concreti. Forse la consueta speranza che, alla fine, sarà lo stellone a tirarci fuori dai guai. Una volta la fortuna si identificava con le maxi-svalutazioni della lira. Oggi, con l'euro, la via di fuga è preclusa.



Eppure le cose da fare sono evidenti. Lo hanno spiegato settimana scorsa il presidente in carica della Bce, Jean-Claude Trichet, e quello in arrivo Mario Draghi. Hanno scritto a Palazzo Chigi per dettare le condizioni cui la Banca Centrale è pronta a intervenire a sostegno dei Btp.  Si comincia con le pensioni. A sentire politici, di governo e di opposizione, e sindacalisti appare come se si trattasse di dar meno soldi ai pensionati. In effetti quelle esistenti non si toccano, se non per una sforbiciata su quelle veramente molto alte.  Per il resto si tratta di adeguare l'Italia al resto del Europa, ovvero di aumentare l’età in cui andare in pensione, in modo da tenere sotto controllo i conti. Innanzitutto abolendo i trattamenti di anzianità che non conoscono repliche in altri ordinamenti. Li aveva la Grecia. Infatti si è visto com'è finita.



L'età pensionabile va aumentata perché, fortunatamente, le aspettative di vita sono cresciute. Prima fra tutte quelle delle donne. Ecco perché non si capisce la ragione dell'ostilità ad alzare la soglia del congedo a 65 anni anche per il lavoro femminile nel settore privato. Già esiste nella pubblica amministrazione. Perché la disparità? Se non si agisse in questo modo, i soldi per pagare le pensioni andrebbero presi da altre parti, quindi alzando la pressione fiscale già eccessiva. La flessibilità dei contratti. Prima delle leggi dell'economia sono quelle del buon senso che impongono un cambio di rotta radicale. L'attuale sistema concentra tutta la flessibilità sulla soglia d'ingresso: contratti a tempo determinato, co.co.co, co.co.pro, stages e via elencando.  Tutte costruzioni più o meno artificiali che fanno ricadere sui giovani il peso dell'aggiustamento. I padri, infatti, godono di contratti a tempo indeterminato che sono più solidi di un matrimonio. Solo in casi estremi è possibile il divorzio. Spesso solo in presenza di gravi crisi aziendali.



Ma anche qui l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori consente la conservazione di ingiustificabili privilegi. Ci sono i dipendenti delle aziende con più di quindici dipendenti che militano nella serie A contrattuale godendo di tutte le garanzie di fronte ad eventuali difficoltà dell'impresa.  Gli altri, invece, impiegati nelle imprese minori, stanno in serie B perché più indifesi di fronte allo tsunami della congiuntura avversa.
Ecco perché bisogna smettere di considerare il lavoro come una variabile indipendente dalle condizioni di salute dei un'impresa. La risposta non può che essere la liberalizzazione contrattuale.  Da una parte dare spazio agli accordi aziendali rispetto a quelli nazionali. Dall'altro aprire tutte le porte e far entrare aria nuova. Consentire alle aziende che vanno bene di assumere nelle fasi di espansione. Libere poi di tagliare se la dinamica dovesse rovesciarsi.  Solo così sarà possibile rimettere in moto il mercato e affrontare in maniera decisiva il problema dell’occupazione dei giovani. Fermo restando, ovviamente, allo Stato il compito, secondo possibilità, di sostenere il reddito dei lavoratori in esubero che aspettano un nuovo posto.

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