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Il credito d'imposta e la soluzione del "lavoro artificioso"

In un Italia sempre più spaccata in due la soluzione in Sicilia è stata finora solo quella di gonfiare a dismisura gli organi pubblici per un costo senza prospettiva. All'interno della grande area meridionale, l'Isola svetta «dall'alto» dei suoi 700.000 disoccupati

PALERMO. Per quanto nel passato non abbia lesinato critiche alle scelte del governo regionale, questa volta la «contestazione» del presidente di Confindustria, Lo Bello, avverso il provvedimento di rinvio del credito di imposta, è particolarmente sferzante. «Presa in giro»... «telenovela dei fondi FAS»... «illusione da aspettative»... «artifìci e soluzioni legislative discutibili» sono alcuni dei giudizi trancianti del vertice imprenditoriale siciliano. Le motivazioni del rinvio del credito di imposta sono di natura tecnica. Restano tuttavia il disagio ed il disappunto del mondo produttivo per il differimento sine die di una misura vitale e che, stando alla legge regionale, avrebbe dovuto essere attivata ben due anni fa.



Siamo ai primi effetti di una politica nazionale, fin qui volutamente ignorata, che riporta nella competenza del governo centrale la spesa dei fondi per lo sviluppo. Uno sberleffo per l'istituto autonomistico, un grave pregiudizio per i siciliani. L'Italia è l'unico Paese europeo con una struttura fortemente duale; è spaccato in due parti, con un Centro-nord in competizione con le punte avanzate dell'Europa ed un Sud impelagato in una ragnatela di micro interessi che lo lasciano soggiogato ed impotente. All'interno della grande area meridionale, la Sicilia svetta «dall'alto» dei suoi 700.000 senza lavoro. Si tratta di un bacino impressionante di disoccupati ed inoccupati che ci pone al vertice (in negativo) tra le regioni italiane.



La «risposta» finora è stata una sola: gonfiare a dismisura gli organici pubblici. Un costo senza alcuna prospettiva. Certo la Sicilia, al pari di altri, viene da una crisi senza precedenti. Ma chi avrebbe mai potuto immaginare che nel momento di massima tensione finanziaria e produttiva, le risorse per lo sviluppo dovessero e potessero restare nel cassetto? Come è possibile giustificare davanti all'opinione pubblica che nel 2010 sono stati impegnati appena 100 milioni di euro e che nel 2011 (per evitare una ingiuriosa e mortificante restituzione di soldi non spesi) dovremmo impegnarne dodici volte di più (1.200 milioni di euro)? Questo finale era già scritto. Nel Piano nazionale per il Sud, non era mancata la chiarezza. Il crescente differenziale economico tra Centro-nord e Sud deve essere superato, concentrando ed utilizzando pienamente i fondi europei a favore delle regioni meridionali, ma in base ad una «regia nazionale»; il che, ovviamente, equivale a dire che la spesa si deciderà a Roma.



Dieci giorni fa il Consiglio dei ministri ha varato il decreto legge sullo sviluppo, finanziato con i fondi non spesi dalle regioni meridionali. Il provvedimento permette, tra l'altro, di raccogliere risparmio per finanziare investimenti al Sud con una ritenuta di appena il 5%, rispetto al 12,5% dei Bot; consente di realizzare subito distretti turistico-alberghieri a burocrazia zero; introduce il credito di imposta fino al 90% per chi assume a tempo indeterminato al Sud; introduce una nuova disciplina per velocizzare le opere pubbliche; rilancia il piano casa.



Ed in Sicilia? Sopravvive una cultura «monoteistica». È la perpetuazione di una strategia che affida la soluzione dei problemi alla sola, improduttiva destinazione di risorse pubbliche alla creazione di lavoro artificioso. Si chiami formazione fine a se stessa, si chiami stage, si chiami precariato a vario titolo, il risultato non cambia. Si paralizzano i conti pubblici, si tarpano le ali alle aspettative dei tanti senza lavoro, si lasciano i servizi pubblici in una condizione da terzo mondo. E per chi, a torto o a ragione, non appartiene ad una categoria disagiata o non si dichiara «volontario», l'unica scelta è il cambio di residenza.

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