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Libia, Berlusconi e la speranza della mediazione

Berlusconi sostiene che quando andrà in Paradiso proporrà a Domineddio di fare il vicepresidente di una holding di nuova costituzione di cui si può intuire chi sarebbe il presidente. Non rammento quale soluzione il Cavaliere ha per un eventuale incontro con Satanasso, ma poiché nella sua lunga vita professionale e politica di diavoli ne ha incontrati tanti e con tutti ha cercato un accordo, si può immaginare che lo prenderebbe sottobraccio per proporgli un affare (joint-venture per il combustibile necessario alle fiamme eterne, per esempio).
Muammar Gheddafi a suo modo un diavolo lo è o comunque certamente lo è stato. E se la diplomazia della pacca sulla spalla così poco in linea col galateo diplomatico ha portato a un memorabile accordo italo libico oggi deriso dall'opposizione, ma ieri da essa assai invidiato tanto da contestarne la primogenitura, si può capire quale tormento personale - prima che politico - avvolga Berlusconi in questi giorni.
Nessun leader politico al mondo avrebbe detto : «Mi dispiace per Gheddafi». Eppure in questa frase naif c'è tutto Berlusconi. La sua non è una gaffe, è uno stato d'animo. Per uno come lui è impensabile dover mandare gli aeroplani contro il partner col quale ha sottoscritto un patto e che fino a pochi giorni fa gli stringeva la mano in un gigantesco ritratto esposto lungo la strada per l'aeroporto di Tripoli.
Tutto Berlusconi sta nell'assicurazione, anch'essa naif, «non abbiamo sparato e non spareremo». Ieri un mig libico ha tirato incautamente la testa fuori dal nido e a un caccia francese non è parso vero di farlo secco con un missile. Sono le regole della no-fly zone: se i libici non possono volare, volando vengono abbattuti. Come si sarebbe comportato un caccia italiano? Probabilmente i nostri - i caccia volano in coppia - lo avrebbero costretto al rientro e in caso estremo (ma solo in caso estremo) avrebbero sparato. Perché l'Italia non si considera in guerra e se ci sta la subisce. La Francia, al contrario, non vede l'ora di menare le mani essendo i suoi presidenti - da Mitterrand a Chirac a Sarkozy - colti infallibilmente da sindromi napoleoniche. La Francia ha puntato sugli insorti e probabilmente li ha riforniti di consiglieri e di armi.
L'Italia - al di là della propaganda - mantiene contatti riservati con entrambe le parti. Non per l'ambiguità che da almeno cent'anni caratterizza la nostra politica militare, ma perché la nostra presenza in Libia è così importante che nessuno può sottovalutarla. A Berlusconi certo non piace sentirsi chiamare traditore da un lato (mai per nome, tuttavia) e vedere sventolare la bandiera francese dall'altro. Ma egli spera che a un certo punto possano crearsi le condizioni per una sua mediazione. Nessuno sa se e quando questo potrà accadere: il problema sul campo in questo momento non è come abbattere Gheddafi, ma evitare che egli possa abbattere i rivoltosi. E non è affatto escluso che lo stallo duri molto a lungo. Ma è possibile che difesa chiara dei civili e degli insorti da un lato e la riluttanza a sparare contro i lealisti dall'altro, alla fine trasformi l'apparente ambiguità della posizione italiana in una futura posizione di ragionevolezza e quindi di forza.
L'ultima amarezza per Berlusconi è venuta dal voto parlamentare di ieri. Negli anni del centrosinistra, senza il voto della Casa della Libertà nessuna mozione sui conflitti internazionali sarebbe mai passata, vista la posizione della sinistra radicale e di una parte del Pd. Ieri l'opposizione non ha ricambiato il favore e abbiamo visto - caso unico al mondo - una maggioranza votare un documento dell'opposizione mentre questa votava contro la maggioranza. Peccato. Almeno in questi casi sarebbe necessario turarsi il naso e votare insieme.

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