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I cinquanta giorni di Obama

Uno dei riti della politica americana sono i Primi Cento Giorni. Li paragonano alla luna di miele e sono il periodo concesso e richiesto a un neopresidente per lanciarsi dalla cronaca nella Storia, impostare il suo quadriennio e farlo quasi suo eponimo; oppure mancare questo appuntamento e imbarcarsi in un viaggio fra il grigiore e l'inutilità da cui i più non ritornano. Sappiamo ora che Barack Obama, uomo delle tante sorprese e presidente "improbabile", fa eccezione anche in questo. Per diversi motivi. I suoi giorni felici, per cominciare, sono stati cinquanta e non cento. Non sono venuti subito dopo la vittoria ma all'indomani di una severa sconfitta. Non sono stati nutriti dall'entusiasmo e dalla compattezza dei suoi sostenitori ma da un adattamento pragmatico agli ostacoli rivelatisi più numerosi del previsto e quasi insormontabili.
Sono venuti, infine, non all'inizio di una "nuova era" indotta da una vittoria elettorale, bensì a metà percorso, negli ultimissimi giorni prima che il Congresso andasse in pensione e nel colmo di una strategia ostruzionistica dell'opposizione; attraverso deputati e senatori tradizionalmente definiti "anatre zoppe".
I cinquanta giorni sono quelli trascorsi fra le elezioni di "medio termine" del 3 novembre e l'ultima seduta del Congresso, quella solitamente dedicata allo scambio degli auguri per Natale e Capodanno. Le ultime sedute del 2010, invece, hanno visto l'approvazione di una raffica di decreti, leggi, ratifiche da riempire un anno: la legislazione fiscale, un programma scolastico, un prolungamento degli aiuti ai disoccupati, l'abolizione di regolamenti militari discriminatori nei confronti degli omosessuali, il "salvataggio" delle indennità per le vittime del terrorismo e, ultimo ma più importante, l'accordo con la Russia per la riduzione delle armi nucleari.
Tutto questo da parte di corpi legislativi in cui la presenza dei democratici, compagni di partito di Obama, è uscita drasticamente ridotta dalle elezioni di novembre, ad esempio con 63 deputati in meno alla Camera e in cui la strategia dei vincitori, i repubblicani, era stata enunciata con sincerità quasi sfacciata, nella priorità assoluta a impedire ad ogni costo "che Obama venga rieletto", come detto e ripetuto da leaders parlamentari come Mitch McConnell, cioè praticare un ostruzionismo da terra bruciata, continuazione di quello perseguito con successo nei primi due anni di Obama alla Casa Bianca. "Guerra totale", dunque, "bilanciata" da parte democratica da un vero e proprio ammutinamento da parte dell'ala sinistra tradizionale, che non ha esitato a denunciare il presidente come "traditore" delle promesse elettorali e dei suoi stessi principii e si è già messa a cercare un candidato da opporgli nelle primarie del 2012. 
Sotto questo tiro incrociato Obama è parso vacillare in un modo che alcuni hanno tradotto con soccombere. I soliti politologi eminenti che in ogni oscillazione dell'elettorato, anche minima, vedono il segno di una "svolta" storica e irreversibile, di una "ondata di fondo", di una "America che cambia". Uno dei pochissimi a vederla diversamente è stato un diplomatico italiano, Paolo Janni, antico e profondo conoscitore dell'America e dei suoi umori, di cui è appena uscito un saggio che saluta la maturazione di Obama, definito "l'uomo venuto da ogni dove, da profeta a politico a statista". La popolarità di Obama, è vero, ha conosciuto un rapido declino, sia pure partendo da livelli troppo alti per potere essere mantenuti; e non era certo una consolazione per il presidente che la "approvazione" della gente per il Congresso fosse ancora minore. Nelle elezioni del 3 novembre, infatti, non si era registrato soltanto un cambio di maggioranza ma anche, soprattutto, un massiccio astensionismo: 55 milioni di votanti in meno rispetto al 2008. 
Da un presidente indebolito e da un Congresso di "anatre zoppe" era lecito attendersi un periodo di passività nella confusione. E invece Obama è risorto e le "anatre zoppe" si sono messe a correre e in cinquanta giorni insieme hanno prodotto di più che in due anni. Al punto che il presidente ha potuto festeggiare nell'esultanza la chiusura dell'anno politico, trasformare la cerimonia degli auguri in un "giro d'onore".

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