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Bersani rischia di fare la fine di Fassino

Nel 1990, quando i colonnelli del Msi sostituirono il giovane Gianfranco Fini con il vecchio Pino Rauti, la moglie Daniela gli disse: "O metti le palle sul tavolo o sei finito". Il marito capì (era stato nei tre anni precedenti un grigio segretario), usò gli attributi e un anno dopo riconquistò il partito. Non sappiamo se negli ultimi giorni Daniela Bersani, dal bancone della sua farmacia comunale di Piacenza, abbia fatto lo stesso discorso al marito. Ma guardando e ascoltando l'altra sera da vicino Bersani abbiamo avuto l'impressione di un pollo scappato dallo spiedo in cui i suoi compagni lo stavano cuocendo a fuoco lento e pronto a vendere carissima la pelle. Quando vuole consolarsi delle proprie difficoltà, la sinistra italiana dice: da noi si discute democraticamente, non c'è un padrone come dall'altra parte. Il padrone, si sa, è il Cavaliere. Non è vero che Berlusconi non sia mai stato messo in discussione. Tutt'altro. Dal '95 prima Bossi, poi Fini e Casini - a turno o insieme - gli hanno cantato il de profundis una infinità di volte. Il vero problema è che gli italiani saranno una gabbia di matti, ma hanno fatto rialzare regolarmente il defunto dal letto di morte. Mentre la sinistra, colpita da un'antica e irrisolta maledizione, appena nomina un leader cerca subito di azzopparlo.
Bersani, benedetto dalle primarie, è in sella da appena undici mesi. È vero che ha impiegato un po' di tempo a prendere le misure, ma è rimasto male quando Veltroni l'ha liquidato con una intervista alla tv di 'Repubblica'. Bersani ha con sé l'artiglieria pesante del partito: D'Alema, Marini, Bindi, Letta, Franceschini, Finocchiaro. Ma Veltroni, con l'aria innocente di chi giura: "Mai una parola contro Pierluigi", gli sta scavando sotto i piedi un cunicolo che ne rende molto fragili le basi d'appoggio. Qui è in gioco molto più di un rapporto tra maggioranza e minoranza di un partito, come ai tempi di Amendola e di Ingrao : si discuteva (non sui giornali) e poi si ubbidiva. Il centralismo democratico è morto nell'84 con Berlinguer, ma adesso forse si esagera. Ci si muove infatti su un binario di confine che raccoglie perfino tentazioni (smentite) di uscita, come quella del gruppo cattolico già di Marini e ora di Beppe Fioroni che sente di non contare nulla in quello che considera un Pds allargato.
Bersani rischia perciò di fare la fine di Piero Fassino, che ha portato la croce del partito per sei anni (2001-2007) per poi perdere il treno sia come candidato premier che come segretario del nuovo Pd. Ha perciò bisogno di molto coraggio e di idee chiare. Il primo può darselo, visto che non è un don Abbondio. Le seconde sono più difficili perché parlare di nuovo Ulivo significa andare in un campo di mine e disinnescarle una ad una senza saltare in aria. La strada più ragionevole del Pd è una alleanza a sinistra con Di Pietro e Vendola, con qualche inserimento - senza velleità governative - di quel che resta di Rifondazione comunista. Una Unione ripulita e senza i vincoli pretesi (e necessariamente ottenuti) da Fausto Bertinotti. Bersani può trascinare alla vittoria una coalizione del genere? Oppure davvero Casini accetterebbe di fare il candidato premier di un'alleanza estesa fino alla sinistra radicale? Per ora ha perfino poco senso porsi la domanda, visto che non si sa quando si vota e chi ci sarà dall'altra parte. Berlusconi non ha nessuna intenzione di mettersi da parte. Tra dieci giorni compirà 74 anni, ma Giolitti ebbe l'ultimo incarico a 78 (e l'avrebbe tenuto, senza l'arrivo di Mussolini) e prima De Nicola, poi Togliatti fecero un pensierino su Nitti che di anni ne aveva 80. Non sappiamo se ,come sostiene qualcuno, Veltroni abbia già compromesso la candidatura a premier di Bersani. Sappiamo che - mentre il centrodestra sta ritraendosi dal parapetto prima di cadere - il centrosinistra vi si affaccia pericolosamente, non rendendo credibile nessun tipo di alternativa.
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