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Fiom all'angolo e con le armi spuntate

La partita è cominciata e sarà durissima. Non era mai successo in Italia che Confindustria disdettasse in anticipo un contratto nazionale di lavoro. E non un contratto qualunque. Bensì quello dei metalmeccanici: un milione di lavoratori, l'aristocrazia della classe operaia. Una mossa che non cambia nulla per i lavoratori, ma cambia tutto per la Fiom, che ora si ritrova all'angolo e con le armi spuntate. Per gli operai, fino alla scadenza del 2012, resterà tranquillamente in vigore il contratto nazionale siglato nell'ottobre del 2009 da tutte le parti sociali tranne la Cgil. Per i duri della Fiom lo scenario è più complicato. Per loro quello firmato nel 2008 è l'unico contratto considerato valido. Ed è quello, soprattutto, su cui il sindacato dei metalmeccanici si preparava a condurre aspre battaglie legali contro il piano per Pomigliano. Proprio da qui sarebbe partita la riflessione di Confindustria. La decisione di cancellare l'accordo del 2008 è avvenuta «a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom».
Da settimane la squadra di Emma Marcegaglia stava studiando il nuovo scenario posto dalle richieste di Marchionne per dare un colpo d'acceleratore alla produttività degli stabilimenti Fiat. Le leggi della competizione globale impongono scelte coerenti.
Allo strappo di ieri si è arrivati anche con la collaborazione delle quattro sigle sindacali (Cisl, Uil, Ugl e Fismic) che hanno firmato sia gli accordi del 2009 sia il piano di Pomigliano e che in questi giorni hanno lavorato alla difesa del contratto nazionale come cornice di garanzia entro cui inserire le nuove regole chieste dal Lingotto. Ed è questo il quadro che si va componendo. Proprio ieri Raffaele Bonanni ha delineato la strada del nuovo patto sociale. In una intervista al Sole 24 Ore è stato molto chiaro: «Bisogna consentire alle imprese di sfruttare al massimo gli impianti con una maggiore flessibilità. In cambio chiediamo ricadute positive sui salari e della salvaguardia dei posti di lavoro». Il significato di queste parole è molto semplice: dare più soldi a chi ha voglia di lavorare. Premiare il merito, riconoscere il senso di responsabilità dei dipendenti. Una rivoluzione rispetto alle posizioni della Fiom che difende il suo mondo antico. Un mondo di diritti senza doveri. Una fabbrica in cui cinque scioperanti possono bloccare il lavoro di cinquecento colleghi. Una fabbrica dove i Cobas hanno già dichiarato il blocco degli straordinari fino al 2014.
Ieri è cominciato il viaggio verso un mondo nuovo. Il contratto nazionale, finora la Bibbia omnibus buona per tutte le situazioni, dalla fabbrica di Mirafiori alle piccole botteghe artigiane degli orafi di Vicenza, deve trasformarsi nella cornice dei diritti minimi. Sotto questo cappello, dovranno trovare posto contratti più segmentati, aderenti ad un modo del lavoro in costante cambiamento. Serviranno per agganciare l'Italia al treno dell'economia globale, in cui l'industria manifatturiera di casa nostra ha le sue carte da giocare. Purché si superi il "nanismo" che da sempre condiziona il made in Italy, anche per ragioni sindacali (oltre che fiscali). "Piccolo è bello", in passato, è stata una scelta obbligata per sfuggire alla morsa di un sindacato troppo invadente. Certo, può esser motivo d'orgoglio scoprire che il 93% dell'export dipende da piccole e medie imprese. Ma ora questa risposta italiana alle esigenze di flessibilità rischia di diventare un handicap per tutti, grandi e piccoli. Non a caso stavolta gli interessi della Fiat e dei piccoli coincidono. E il pugno di ferro di Marchionne, lungi dallo spaccare la Confindustria, ha consentito di trovare un terreno comune d'azione tra grandi e piccole imprese. E con i sindacati che hanno a cuore la partita dello sviluppo, piuttosto che l'intransigenza ideologica. Ed è una bella novità. Solo la Fiom non la accetta.

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