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Usa via dall'Iraq, occhio ad Al Qaeda

Sette anni e cinque mesi non sono una inezia: tanti ne hanno passati le truppe americane in Iraq. E su questo termine indilazionabile (31 agosto 2010), anticipato d'un paio di settimane, i reparti combattenti che hanno debellato le fazioni armate saddamite e sradicato in buona parte la piaga del terrorismo, fanno i bagagli e ritornano in patria.
C'è qualcosa che non convince nelle parole del portavoce del Dipartimento di Stato, che commentando le immagini dei carri armati mentre varcano la frontiera del Kuwait, parla di "momento storico" e ricorda che l'impegno americano è "sempre solido": «Non è la fine di qualche cosa ma una transizione verso qualche cosa di diverso».
Perché, se ad applaudire la decisione del presidente Obama sembrano essere soltanto i suoi sostenitori liberal e i capi di Al Qaeda, tutti gli altri, in Iraq e in America, la deplorano. Persino Tarek Aziz, l'ex ministro degli esteri di Saddam, lamenta che gli Stati Uniti lascino il paese nelle mani dei lupi, cioè dei terroristi.
Il pessimismo è condiviso dal suo successore Zebari, attuale ministro di origine curda, secondo cui con il ritiro delle unità combattenti si creerà rapidamente un vuoto di potere nefasto, che tenteranno di occupare Iran, Siria, Turchia, forse Arabia Saudita i quali avranno buon gioco a sbarazzarsi del nuovo esercito iracheno cui, nonostante una buona crescita professionale soprattutto degli ufficiali, non riconosce una adeguata capacità di tenuta.
Zebari non è un ingenuo, sa benissimo che Obama non abbandonerà l'Iraq ad un fosco destino anche per ragioni economiche, per i forti interessi petroliferi oltre che strategici.
Ma il timore è che gli Stati Uniti lascino il loro compito a metà strada. Lo conferma anche il fatto che a cinque mesi dalle elezioni politiche in Iraq, la Casa Bianca abbia evitato di intervenire sulle diatribe bizantine tra i vari partiti al punto che il governo non è ancora nato. Il presidente Bush, con tutti i suoi difetti, avrebbe da tempo tagliato corto e imposto una decisione: anche per evitare che i kamikaze di Al Qaeda rialzino la testa.
Al Qaeda ha elaborato una strategia molto scaltra per profittare di questa difficile congiuntura: si tiene lontano dagli americani, non vuol ostacolare il ritiro delle truppe, sta impadronendosi anzi del ritiro per spiegare al popolo che "finalmente gli infedeli se ne vanno" e il merito è tutto dell'organizzazione eversiva.
È invece contro l'esercito iracheno che Al Qaeda, mira per indebolirlo quando dovrà praticamente da solo difendere la giovane democrazia. Negli ultimi giorni infatti sono ripresi su vasta scala gli attentati alle caserme.
Il generale Petraeus era riuscito in un compito immane: separare la grande comuinità sunnita dal terrorismo al quale prestava obbedienza e aiuti. Ora Al Qaeda opera per ricompattare la "sacra unione".
Una prova viene offerta dalle milizie pro-governative e pro-americane dello sceicco al Janabi: egli ha denunciato che un centinaio di suoi uomini su 1800 non hanno riscosso la paga mensile di 100 dollari e sono scomparsi. Dunque, i dollari chi glie li ha dati se non Al Qaeda? E dove sono nascosti quei miliziani se non negli anfratti delle bande terroristiche?
Problemi gravi che pesano sul ritiro delle unità combattenti, e su quello futuro già programmato entro il 2012. Quando, a meno di una correzione americana di rotta, sull'Iraq potrà tornare la tempesta. E tutto ricomincerà daccapo.
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