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La riscossa di Pechino

È successo ancora prima del previsto: nel secondo trimestre, il PIL della Cina, con 1.339 miliardi di dollari, ha superato per la prima volta quello del Giappone (1.288 miliardi), facendo della Repubblica popolare la seconda potenza economica del globo. Davanti restano solo gli Stati Uniti, che se mantenesse l'attuale ritmo di crescita, Pechino riuscirebbe a sopravanzare intorno al 2030. Con lo storico sorpasso (che, data l'abissale differenza tra i tassi di sviluppo dei due Paesi, sarà certamente confermato a fine anno) la Cina consolida anche simbolicamente una posizione di preminenza che si manifesta in molti altri modi: è ormai il più grande Paese esportatore, quello con le più consistenti riserve valutarie, il maggiore acquirente di materie prime e da quest'anno anche il più grande mercato mondiale per gli autoveicoli. Ma, soprattutto, è diventato un protagonista essenziale dell'economia globale, di cui in questo momento è il principale motore, tanto che quando la scorsa settimana è giunta notizia di un possibile rallentamento della sua crescita le Borse mondiali ne hanno immediatamente risentito. Per ora il suo reddito pro-capite - circa 3.600 dollari - è quasi da Paese sottosviluppato, ma paradossalmente proprio questo costituisce il suo punto di forza, perché significa che solo una parte dei suoi 1.300.000.000 di abitanti ha finora beneficiato del boom: a fronte di una popolazione costiera che gode ormai di redditi quasi occidentali, ci sono ancora nelle province interne centinaia di milioni di contadini e braccianti che vivono in povertà, lasciando enormi margini di crescita.
Naturalmente, non c'è la certezza che la Cina riesca a mantenere, anche in futuro, il tasso di sviluppo vicino al 10 per cento fatto segnare negli ultimi trent'anni. Essa è riuscita, grazie a un programma di investimenti di 586 miliardi, a superare quasi indenne la grande recessione mondiale, ma comincia a manifestare alcuni sintomi che potrebbero rallentarne il progresso: molti analisti segnalano il pericolo di una "bolla" immobiliare, altri puntano il dito verso la debolezza strutturale delle grandi banche. Ma i principali elementi di rischio sono costituiti dalla crescente irrequietudine della sua forza lavoro, che rivendica salari più adeguati e si ribella contro relazioni industriali repressive, e la necessità di cominciare a contenere, sotto la pressione internazionale, l'emissione dei gas serra, di cui il Paese è ormai il maggiore responsabile. Entrambi questi fattori porteranno, inevitabilmente, a un aumento dei costi di produzione.
Pechino, intanto, dopo essere diventato egemone in Asia, fa sentire il peso della sua potenza finanziaria anche negli altri continenti: è diventato il maggiore investitore in Africa, sta aggredendo l'America latina e comincia ad affacciarsi anche in Europa, dove ha per esempio comprato la Volvo. La natura autoritaria del regime, ormai solo formalmente comunista, consente alla Cina di "fare sistema" meglio di altri Paesi; e come dice l'economista americano Nicholas Lardy, "il popolo cinese, dopo secoli di miseria"è di gran lunga il più affamato di benessere".
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