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Quelle statue distrutte, la prova di una rabbia mafiosa e impotente

La notte palermitana può anche essere la notte degli sciacalli, degli infami piccoli piccoli che muovendosi nel buio vorrebbero dimostrare di essere più grandi della loro vigliaccheria. Magari per l’oltraggio alle statue di Falcone e Borsellino sono stati impiegati giovani mafiosi ansiosi di essere messi alla prova. Oppure hanno agito giovani vandali che hanno solo il culto della distruzione.
Ma sarebbe un errore considerare questo ennesimo atto vile della mafia, se è della mafia, come una prova di forza; è, piuttosto, una prova di rabbia impotente dopo le mazzate inferte da magistrati e forze dell’ordine alle cosche del Palermitano e di altre aree della Sicilia.
Forse, tenuto conto di quanto accaduto in passato, si sarebbe potuto e dovuto tenere sotto controllo le statue a due passi da piazza Politeama.
Il disgusto per quanto accaduto non cambia la realtà: la maggioranza dei siciliani è con l'esempio e la memoria di Borsellino e Falcone, la mafia continua a subire colpi e non rinuncia alle mosse più plateali della sua squallida guerra psicologica.
In questo contesto nonostante i successi non è possibile abbassare la guardia nemmeno di un centimetro, la lotta va portata avanti senza compiacimenti che, in qualche caso potrebbero anche rivelarsi fallaci.
L'anniversario della strage di via Mariano D'Amelio cade oggi e la manifestazione si terrà a Roma con una toccante cronaca sinfonica che sottolineerà la grandezza dei due magistrati assassinati dalla mafia insieme agli uomini delle loro scorte.
Non è un caso che la cerimonia si svolga nella Capitale: ormai la mafia è un problema nazionale che allunga le sue propagini nell'Italia settentrionale oltre che nel mondo.
Il tema della commemorazione romana è: "Il coraggio della solitudine".
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone si trovarono a muoversi in solitudine contrastati e calunniati anche da pezzi delle istituzioni. Soli mentre un alone grigio della borghesia e della politica trescava e colludeva con la mafia, i due magistrati lottavano in condizioni difficili, pur avendo individuato uomini e schemi di Cosa Nostra. Lottavano sapendo che era necessario fare presto, che l'essenza stessa della nostra democrazia era di fatto in pericolo proprio per l'esistenza condizionante della criminalità organizzata. Va, inoltre sottolineato che i due magistrati hanno consentito un'azione di straordinaria comprensione storica del fenomeno mafioso.
Ma erano soli. Si pensi, ad esempio a ciò che Falcone ha dovuto sopportare per le mancate promozioni per le accuse ingiustificate e infami (si pensi alle illazioni sull'attentato dell'Addaura).
Una parte dello schieramento politico, ben collegato con frazioni oltranziste della magistratura caricò a testa bassa Giovanni Falcone. Oggi, naturalmente le infamie di ieri sono state dimenticate: non saremo intransigenti sugli errori di ieri se l'accettazione dell'esempio e della lezione di Falcone e Borsellino sarà piena e consapevole.
Ad ogni modo, la maniera migliore di onorare i magistrati uccisi è quella di insistere nella lotta alle mafie, che non sono invincibili. Colpire capi e gregari, impoverire le cosche sequestrandone e confiscandone gli illeciti profitti. Colpire a Nord, al Centro e al Sud, mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti, senza requie, in modo che ognuno di questi malavitosi non chieda mai per chi suona la campana, sapendo bene che essa suona anche per lui.

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