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Il disgelo fra Stati Uniti e Russia

È mancata soltanto la bicchierata d'addio, tutti assieme a levare il calice le quattordici spie "scambiate" l'altro giorno tra Russia e Stati Uniti. C'erano proprio tutti e James Bond non era stato invitato. L'accordo raggiunto dai governi che furono protagonisti della Guerra Fredda è stato rapido, raggiunto quasi con la mano sinistra, un chiaro segnale che simili piccolezze non possono pregiudicare l'ennesima e più promettente fase di disgelo fra le due Potenze.
Le scenette dicevano tutto: in un'aula di tribunale a Manhattan sono entrati, cinque per volta, i dieci russi. Alcuni portavano l'uniforme dei detenuti, i più T-shirts e jeans. Uno dopo l'altro, hanno recitato la loro "confessione": Colpevole. Prima avevano dovuto declinare le loro generalità, quelle vere e quelle posticce. Tutti confessi, tutti condannati: a essere rimandati in Russia, cancellate le sentenze in Usa. Guarda caso, nelle stesse ore al Cremlino il presidente Medvedev stava firmando la grazia per i quattro agenti americani colti a loro volta con le mani nel sacco. Poi gli uni e gli altri hanno preso l'aereo per tornare a casa.
Un finale non comune per una storia che, fin a un certo punto, ha ricalcato tutti i cliché dei romanzi spionistici della Guerra Fredda. L'inchiostro "simpatico" gli incontri furtivi nei parchi, gli scambi di sacchi piene di banconote.
Il denaro nascosto in buchi remoti sotto bottiglie frantumate e anzi soprattutto le bionde seducenti dallo sguardo assassino".
Ma non erano racconti: erano parodie. Lo dimostra fra l'altro, il tenore dei "messaggi segreti" fra gli agenti delle case madri, a cominciare da quel sinistro "centro di Mosca". È venuto fuori che il massimo che facevano gli agenti russi era conoscere persone importanti e chiacchierarci: gente di Harvard o di Wall Street, per esempio il finanziere Alan Patricof, un conoscente dei coniugi Clinton senza mai portare il discorso su dei veri segreti. Delle spie da salotto, più amabili che pericolose (se si fa eccezione, forse, di quel paio di agenti in gonnella che tenevano alta la tradizione delle concorrenti e concubine di 007). Le loro controparti americane a Mosca non erano, a quanto pare, di calibro differente.
Non stupisce dunque che sia finito tutto con una stretta di mano, condita magari da una strizzata d'occhio del tipo in cui eccelle Putin; che ha riassunto l'intera vicenda, chiacchierando con Bill Clinton, in uno scherzo: "I vostri poliziotti si sono agitati un po' troppo e hanno messo in prigione delle persone. Ma dopotutto ciascuno fa il suo mestiere". I poliziotti e le spie. Non si può che sorriderne nel momento in cui presidente russo Medvedev ha appena fatto una mangiata di hamburger in compagnia di Barack Obama e in cui le relazioni fra Casa Bianca e Cremlino sono particolarmente facili.
Sono passati i tempi in cui l'uomo del Cremlino accusava l'America di voler diventare "il padrone unico del mondo e la Nato di "stringere d'assedio la Russia". Adesso il "reset" pigiato da Obama funziona, lo "scudo antimissile" si allontana dalle frontiere russe, Putin rilutta a mandare truppe nel Kirgizistan come invocato dal suo nuovo governo.
Il vero mistero, allora, è un altro: perché lo "scandalo" sia venuto fuori proprio adesso. Un complotto dei "falchi americani contro Obama o dei falchi "russi" contro Putin? Per far fare una figura ridicolo a quest'ultimo noto fin troppo come il patrono dei riciclati agenti dell'ex Kgb. I vecchi del mestiere lamentano da sempre un declino della professione L'accusa poteva essere non di avere spiato l'America ma di averla spiata male. Putin ha come sempre la battuta pronta e così all'interlocutore di Washington si è limitato a promettere che "la prossima volta le manderemo dei più bravi".

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