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Fiat, sacrifici per uscire dalla crisi

Ma è possibile pensare di uscire da una crisi come quella che da anni sta affliggendo il nostro sistema industriale senza fare nessun sacrificio? È questa la domanda che bisogna porsi all'indomani del voto a Pomigliano mentre ancora ci si interroga sul significato del voto. Il passaggio da 36.000 a 280.000 auto nella fabbrica napoletana è decisamente una sfida. Peraltro, anche l'entità degli investimenti che Fiat dichiara di voler realizzare è imponente: operazioni da 700 milioni in tecnologie e processi industriali non si concludono tutti i giorni. Leggendo insieme i due dati, si capisce come ci siano tutti gli elementi per vincere la sfida, se anche l'organizzazione del lavoro sarà adeguata, cioè in grado di rendere la produzione il più possibile fluida e reattiva ai cambiamenti della domanda. Solo su questo bisognerebbe discutere. Solo questo conta per il futuro della più grande azienda italiana e quindi per il futuro del Paese.
L'Italia, per di più, ha dimostrato di non essere capace di attirare investimenti stranieri, a differenza di Francia, Olanda, Germania, UK. Un'impresa decide di investire in un Paese se ritiene di poterne trarre beneficio nel medio termine: oggi l'Italia non è attrattiva per le imprese straniere e, se non si rimettono in discussione alcuni vincoli, rischia di non esserlo più neppure per le aziende italiane che continuano a progettare da noi prodotti che devono poi essere venduti in giro per il mondo. Qualsiasi intervento volto a migliorare la produttività è obbligatorio. Non solo per il bene dell'industria automotive, ma per tutto il sistema industriale italiano.
In Polonia gli operai hanno una produttività molto più alta non perché lavorino in condizioni di schiavitù, ma perché hanno un'organizzazione del lavoro coerente con il modello industriale. Se l'obiettivo è la ripresa della produttività, sia gli impianti sia la manodopera devono operare in modo adeguato a raggiungere questo fine. Facendo una similitudine sempre di tipo automobilistico, è impossibile pensare che guidando in città, con continui «stop and go», un autista al volante di un'autovettura possa ottenere la stessa efficienza di consumo che avrebbe andando in autostrada a velocità costante. Il problema della nostra industria oggi non sta né nel guidatore né nell'automobile, bensì nel creare le condizioni che permettano di mantenere una velocità il più costante possibile.
Ma a monte di tutto questo, la mutata organizzazione del lavoro prevede un'azione decisa su comportamenti irregolari che, anche se messi in atto da una minoranza, penalizzano la produttività dell'intero stabilimento. Oggi i valori di produzione di Pomigliano sono impietosamente più bassi rispetto a quelli in Polonia non perché i lavoratori polacchi siano dei superuomini, quanto perché è basso il numero degli assenteisti e dei fannulloni. È come andare in montagna in cordata: se qualcuno si fa trascinare invece che camminare al ritmo dei compagni tutta la squadra ne esce penalizzata. Aumentare la velocità è impossibile se la cordata è appesantita, è un obiettivo ambizioso ma raggiungibile se perseguito da tutti con il medesimo sforzo. Invece sembra prevalere un'altra logica. I soliti antagonismi. La difesa blindata dei proprio diritti senza un cenno ai doveri. La speranza, ancora diffusa in certi ambienti della Fiom che, alla fine una qualche soluzione verrà trovata. Che lo Stato pagherà perché non si può permettere il lusso di consegnare l'area di Pomigliano alla camorra. Senza ricordare, però, quanto sta accadendo a Termini dove è stato proclamato uno sciopero solo per potere vedere la partita dell’Italia. Senza tenere conto che, ormai la storia è cambiata. I deficit pubblici non sono più un fattore di sviluppo ma un freno. Serve agilità, dinamismo e nuove idee. In Italia e nella Vecchia Europa se ne vedono ancora poche. È un caso che anche ai mondiali di calcio le grandi nazionali europee soffrano contro asiatici e sudamericani? Forse no.

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