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Precari, il loro disagio una mina sociale

L’illusione che il vento del rigore normalizzi le finanze pubbliche italiane muore sullo Stretto. La protesta dei precari a Palermo e la minaccia di nuove clamorose e letali contestazioni (dal blocco delle raffinerie a quello dei porti) dimostrano quanto sia difficile distogliere segmenti e zone del Paese dalle sue cattive abitudini, dai consolidati malvezzi della pessima amministrazione, dalla demagogia che invade il mercato della politica al pari della cattiva moneta nei tempi cupi.



Cerchiamo di essere chiari. È umanamente comprensibile che i precari, soprattutto quelli meritevoli, difendano il loro magro salario: nessuna persona civile auspica la macelleria sociale o può permettersi di irridere la richiesta di sicurezza da parte dei ceti più deboli. Ma è grottesco, e anche un po' indecente, che il ceto politico, dirigenti sindacali ed establishment partitico dell’Isola cavalchino la protesta ed eccitino al crescendo dei sabotaggi e dei blocchi. Consiglieri comunali, sindaci, assessori, amministratori regionali, deputati chiedono a gran voce al governo centrale di derogare alle norme sul «patto di stabilità», assicurando agli enti territoriali di governo i fondi necessari per «stabilizzare» i precari, per assumerli cioè in pianta stabile. «Dobbiamo disinnescare questa pericolosa mina sociale», dicono al governo e specificamente al ministro Giulio Tremonti, ma omettono di confessare che sono stati loro a innescarla, questa bomba.  Non lasciamoci ingannare dal fatto che il ceto politico è compatto su questa posizione - destra, sinistra e centro - questa è la prova regina che tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, al governo ieri o oggi (per la verità molto più ieri che oggi), hanno contribuito alla formazione di quest’anomalia.



Chi sono i precari? Quanti sono? Quanta «anzianità di precariato» ha ciascuno di loro? Questo fenomeno resta abbastanza oscuro, diciamo che in questi giorni si discute la sorte di 22.500 di loro. Nel numero sono compresi quelli che lavorano, che svolgono compiti socialmente utili, ma ci sono anche quelli che non lavorano o che fingono di lavorare. Ci sono anche coloro che lavorerebbero se fossero impiegati e utilizzati con oculatezza e con rigore.


Non mancano i casi paradossali. Quello, ad esempio, dei precari che, fino a quando erano gestiti dal Comune di Palermo svolgevano lavori utili alla collettività (dal controllo alla pulizia di certi snodi e sottopassi), ma da quando sono passati alle dipendenze della Regione di fatto non vengono impiegati. Nel momento in cui si chiede a tutto il Paese una serie di sacrifici per fronteggiare una crisi senza precedenti, una pura e semplice «deroga per la Sicilia» non ha senso. Anche perché non va dimenticato che l’Isola ha un numero di dipendenti pubblici (degli enti territoriali o statali veri e propri) di molto superiore alla media nazionale. Il che, peraltro, non impedisce che, per giustificarsi di fronte all'accusa di inefficienza, parecchie amministrazioni lamentino la «mancanza di personale».  Il problema è proprio quello del ceto politico. Anziché cavalcare acriticamente una protesta incomprensibile, governati regionali e comunali, deputati e senatori (i quali rappresentano anche i contribuenti di altre regioni, destinatari dell’eventuale conto finale) dovrebbero avanzare progetti alternativi credibili, accettabili piani di rientro che garantiscano risparmi e tagli pur salvando il salvabile dell’universo dei precari. I fondi europei, i trasferimenti dal centro alla periferia devono servire per investimento e sviluppo, che porteranno, se la classe politica farà la sua parte, a nuova occupazione vera. Ma le scarse risorse disponibili non possono servire a camuffare vecchi assistenzialismi.

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