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L'incubo della bomba privata

Nucleare. Passato, presente, futuro. Naturalmente intrecciati l'uno con l'altro, i problemi e le paure, le proposte e gli accordi e le diffidenze. Un tema cui non si può girare attorno e che sta monopolizzando, più che opportunamente, l'attenzione degli statisti, primo fra tutti il presidente degli Stati Uniti. Appena di ritorno da Praga, dove ha firmato con il collega russo una tabella di marcia che dovrebbe portare, gradualmente e con tutte le cautele, a un pianeta senza atomiche, Barack Obama ha convocato a Washington tutti gli altri interessati, in un modo o nell'altro. Metà della Terra, quattro dozzine di Paesi con tanti capi di Stato o di governo, per intrattenerli su una ipotesi che angoscia l'immediato futuro: il pericolo che un mondo di nazioni nucleari denuclearizzanti degeneri, oltre a tutto in sordina, in un mondo in cui circolano "atomiche private", con reti di distribuzione i cui clienti primi e prediletti sarebbero naturalmente le "internazionali" del Terrore. Il rischio è reale quanto lo era quello, durato mezzo secolo, dell'"equilibrio del terrore" fra le Superpotenze e in un certo senso perfino di più. Più ancora delle velleità dei due Paesi che oggi ossessionano l'America e qualcuno fra i suoi alleati: la Corea del Nord e soprattutto l'Iran. Perché è ben lecito chiedersi che cosa potrebbe farsene Ahmadinejad di una bomba atomica (usarla comporterebbe la distruzione del suo Paese) ma non ci sono molti dubbi su che cosa ne farebbe Bin Laden o un suo successore.. Ed ecco che Obama, dopo aver faticato a intendersi con Putin e Medvedev ma dopo aver con loro raggiunto un accordo cementato dall'interesse comune, ha passato, di ritorno a Washington, lunghe ore in una serie di brevi colloqui con diverse categorie di interlocutori ma soprattutto con due tipi: i leader di Paesi come il Sud Africa (che ha rinunciato ai programmi nucleari) o il Kazakistan (che le bombe le aveva già con missili e tutto come eredità dello scioglimento dell'Unione Sovietica e che ha preferito chiudere tutto e rispedire tecnologia e progetti a Mosca) e, ultimo in ordine di tempo, il Cile e quelli di nazioni, come l'India e il Pakistan, che l'atomica ce l'hanno e se la tengono però la "blindano". Non abbastanza per i gusti di Obama, ma si muovono nella direzione giusta. L'obiettivo concreto è, per ora, una serie di misure indispensabili: uno standard comune minimo di sicurezza per tutti gli impianti nucleari, per i depositi di materiale, inclusi laboratori ed ospedali che lavorano su materiale radiologico, un impegno politico di tutti a ratificare e implementare il documento firmato nel 2005 nella Convenzione sul Terrorismo Nucleare; più, o prima di tutto, l'impegno degli Stati Uniti e della Russia a "consolidare ed eliminare" i loro surplus di uranio arricchito e di plutonio. Il buon esempio, dunque, appena dato, a Praga, da Washington e da Mosca. Che però non è ancora arrivato in porto e che anzi incontra difficoltà proprio in America. Obama in questi giorni ha spedito i portavoce della sua Amministrazione a rassicurare i dubitosi, i "falchi", i senatori repubblicani che dovrebbero ratificare il trattato, ripetendo che il potenziale nucleare Usa è sostanzialmente intatto e potentissimo. A smentita delle accuse, ingigantite dall'approssimarsi di una campagna elettorale, secondo cui la politica di Obama metterebbe a rischio la "sicurezza nazionale". Anche se essa non contiene in realtà novità rivoluzionarie. La posizione dell'attuale presidente è praticamente identica a quella esposta nel lontano 1957 (cioè in piena Guerra Fredda) dal suo predecessore Eisenhower, un repubblicano.

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