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L'astensionismo e il suo partito

Sbagliavano quei politici che pensavano bastasse un semplice, verbale atto di contrizione per indurre gli astensionisti in forte crescita a tornare alle urne, a non divorziare dalla partecipazione alle contese elettorali. Evidentemente le parole, le esortazioni e i buoni propositi non bastano. Poche cifre, illuminanti. Del poco più di un milione di elettori chiamati ad esercitare il loro diritto dovere per i ballottaggi alle comunali soltanto il 58,77 per cento si è recato ai seggi: il partito del non voto ha superato il 40 per cento, prima formazione-ombra dell’Italia scontenta. È ormai chiaro che il fenomeno tocca sia la destra che la sinistra, è ormai tramontata la stagione in cui le formazioni comuniste e post-comuniste sopperivano con la vecchia disciplina di partito alla perdita di suggestione e alla mancanza di leader carismatici. La gente è stanca del materiale usato per la competizione politica e del modo in cui lo si impiega, stufa di un dibattito in cui spesso le «escort» hanno oscurato i programmi e le iniziative giudiziarie hanno giganteggiato nel confronto con le strategie dei partiti. A sinistra, inoltre suscita perplessità che il maggiore partito, il Pd, dia l’impressione, talvolta, di farsi dettare la linea da centrali mediatiche piuttosto che dai delegati dei militanti. Per quel che riguarda la destra, in taluni momenti emerge qualche smagliatura nell’ordito del Pdl; ad ogni modo le forze di maggioranza risentono, si pure leggermente e in misura inferiore a quella registrata in altri Paesi, del disamore per la politica che le grandi crisi economiche sempre comportano. A fare le spese di questa sconfortante miscela sono stati proprio i ballottaggi per le comunali. Eppure, i municipi mantengono una capacità di richiamare la partecipazione, proprio perché sono l’istituzione più vicina ai cittadini. Non è un caso che il 27-28 marzo l’affluenza alle regionali calò del 7 per cento rispetto al 2005, mentre per le comunali si ridusse soltanto del 3 per cento. E allora? È evidente che a determinare l’impennata dell’astensionismo è stato anche il sistema del doppio turno: ci si batte, al primo turno, per la parte cui si ritiene di appartenere, al ballottaggio tanti dovrebbero votare non già per il soggetto politico più vicino, ma per quello meno lontano, magari in base al principio che i nemici del mio nemico sono, o dovrebbero essere, miei amici. Ma la passione politica in due settimane si diluisce e i partecipanti al ballottaggio che non hanno una forte immagine personale non possono contare sulle alleanze di carta, magari presunte. Anche se in misura minore, anche in altri ballottaggi si è notato un aumento dell’astensionismo rispetto al primo turno. Su questa realtà si deve riflettere nel momento in cui nel dibattito sulle riforme c’è chi, come il presidente della Camera Gianfranco Fini, difende il sistema a doppio turno quasi fosse un elemento irrinunciabile del semipresidenzialismo d’ispirazione francese. Bisogna stare attenti, le istituzioni debbono adattarsi anche alle abitudini e alle tradizioni di ogni società. Il doppio turno non sarebbe di nessun aiuto a chi volesse realmente riavvicinare una parte del popolo sovrano alla politica. E riforme vanno fatte e vanno fatte bene. Dalla qualità della «stagione costituente» di cui tanto si parla dipenderà la riduzione o la crescita del partito del non voto. E chi si arroccasse su posizioni d’immobilismo e conservazione istituzionale sarebbe punito più degli altri politici.

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