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Usa e Cina, scontri tra "amici"

Il dibattito-scontro fra Stati Uniti e Cina a proposito della visita in America del Dalai Lama è più che un dibattito e diverso da uno scontro. In sé potrebbe essere anche soltanto un incidente di percorso, non privo di precedenti, alcuni dei quali già riguardanti l'eminente leader dello spirito, in altri casi altre figure egualmente o diversamente significative. Basti ricordare il rifiuto nei tempi in cui il "realista" Henry Kissinger dirigeva dal Dipartimento di Stato la politica estera Usa: Aleksandr Solgenicin non fu ricevuto alla Casa Bianca. Su un piano più pratico vi furono incidenti navali, sfide e polemiche varie. Il caso Dalai Lama potrà dunque essere dimenticato abbastanza presto. Lo sarebbe certamente se non fosse per il tempo in cui accade, che non è certo quello di una Guerra Fredda fra Washington e Pechino bensì quello di una profonda trasformazione a lungo termine dei rapporti tra la Superpotenza che c'è e la Superpotenza che arriva. Non è necessariamente conflitto, soprattutto perché quasi ogni contrasto è bilanciato in qualche modo dal comune interesse a un approfondimento e dunque, quasi sempre, miglioramento della relazione che potrà contrassegnare il ventunesimo secolo. Sappiamo già tutti da tempo che le economie americana e cinese stanno diventando complementari: in gara, desiderose di vincere ma bisognose entrambe che l'antagonista non perda. Accadrebbe se Pechino diminuisse in misura sensibile il suo continuo "finanziamento" del sistema economico Usa in cambio del via libera alle proprie esportazioni. Nel 2009 la Cina ha ridotto il ritmo dell'indebitamento americano, aumentandolo tuttavia in termini assoluti fino a 62 miliardi di dollari. Ma un po' meno del debito totale americano (altri Paesi hanno prestato di più). Né Pechino né Washington possono permettersi di infliggersi veri danni a vicenda: gli uni stampano vertiginosamente dollari, gli altri li assorbono e, da buoni creditori, salvano la moneta dal collasso.
Il guaio è, è bene ripeterlo, che neppure nell'era dell'economia globale la finanza non è tutto: prima o poi, di tanto in tanto, le transazioni devono rispecchiarsi anche in gesti simbolici, che possono allarmare, ferire o almeno irritare. Due soli esempi tra i più recenti: la Cina è sempre più presente in Afghanistan. Non manda soldati ma "tecnici" in qualche modo collegati con un conflitto in corso: per esempio istruttori che insegnano agli afghani come disinnescare le mine di terra. Non per salvare la vita dei militari Usa o dei civili, bensì per rendere più sicura la penetrazione commerciale a lungo termine di Pechino in un Paese che dopo tutto confina con la Cina e che potrebbe entrare un giorno nella sua sfera di influenza che in un futuro senza America o addirittura in un ipotetico scenario "post-islamico" aguzza gli appetiti anche dell'India: si potrebbe chiamare "pacificazione preventiva".
L'altro episodio è invece proprio una novità. Una cerimonia a Pechino, solenne, militare, funebre. Sono rientrate da Haiti le salme dei primi membri cinesi delle "forze di pace" nell'isola devastata da Madre Natura. I caduti sono stati onorati come eroi, le bare avvolte nelle bandiere, la partecipazione popolare intensa. Cerimonie simili a quelle, quasi clandestine per decisione del governo Bush, per la tumulazione dei resti dei soldati americani caduti in Irak e in Afghanistan. Il messaggio implicito in questa solennità: la Cina esprime anche in azioni altruistiche la sua integrazione planetaria nel ruolo di grande potenza. "Siamo buoni cittadini del mondo", ha recitato un commentatore della cerimonia e un altro ha subito aggiunto: "Non siamo in gara per il secondo posto". La Cina postcomunista cerca di darsi un'immagine davvero "globale", di tradurre la sua forza commerciale e finanziaria non solo e non tanto con il rafforzamento militare ma anche in quella "provincia" che si chiama "soft power". Che è stata componente così esclusiva e importante del primato planetario dell'America. La più "generosa" delle sfide ma forse quella più carica di conseguenze remote.

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