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La storia e i suoi orrori

Siamo vicini alla «Giornata della memoria» per la Shoah, il genocidio ebraico. E proprio nelle ultime settimane le case editrici si sono affrettate a far distribuire testi di testimonianze, di riflessioni, di analisi su quegli orrori del nazismo. Ogni libro rappresenta un pugno in faccia a coloro che ostinatamente continuano a definirsi negazionisti. Fra i tanti saggi ci soffermiamo su uno estremamente importante perché analizza un capitolo finora poco conosciuto: quello della fase finale della Shoah, Le marce della morte (Rizzoli). L'autore è Daniel Blatman, docente di storia degli ebrei dell'Europa orientale e storia dell'Olocausto all'Università ebraica di Gerusalemme. Che cosa è accaduto quando gli alleati angloamericani e l'Armata russa stavano per arrivare nei lager nazisti dove si trovavano ancora rinchiusi oltre 700 mila prigionieri? C’era un preciso ordine di Heinrich Himmler, che aveva la responsabilità dei lager: «Il campo dev'essere immediatamente evacuato. Nessun prigioniero deve cadere vivo nelle mani del nemico». Verso la fine del 1944 i prigionieri furono spinti con forza fuori dai campi, a piedi, con la neve e il freddo. «Indossavamo soltanto dei vestiti estivi, brandelli di stracci, non avevamo calze e le scarpe erano distrutte. Lungo la strada erano sparsi qua e là morti, sangue, vestiti». I nazisti evacuarono i campi in fretta e furia, cancellando ogni traccia del genocidio. È curioso che tra i numerosi studi sulla Shoah non era stato approfondito questo aspetto meno conosciuto. Quello che stupisce maggiormente però è «l'accoglienza» che i prigionieri ricevevano dalle comunità locali vicine ai «campi». Le comunità guardavano con ostilità le colonne di prigionieri e questo atteggiamento affrettò la loro fine. Come nell'eccidio di Gardelegen, uno sterminio di massa ricostruito in ogni dettaglio e che simboleggia un massacro nell'indifferenza generale: in pochi mesi terribili oltre 250 mila esseri umani persero la vita, cioè il 35% dei prigionieri viene annientato nel corso dell'ultimo scatto omicida dei nazisti. Un numero impressionante che si somma tragicamente a quello degli oltre sei milioni di ebrei assassinati nei lager dal Terzo Reich.
Dai lager nazisti ai gulag staliniani. Ha suscitato una forte impressione la pubblicazione di Alcune mie vite di Varlam Salamov (Mondadori). Il libro,curato da Francesco Bigazzi, Sergio Rapetti e Irina Sirotinskaia, raccoglie per la prima volta i documenti dei tre processi, completi di tutti gli interrogatori. Si tratta di materiale inedito: i rapporti informativi stilati dalle spie reclutate dalla polizia politica tra il 1956 e il 1959. Salamov, scrittore molto apprezzato, finisce in carcere e poi in un gulag degli Urali, sin da quando frequentava l'università, per i suoi legami con l'opposizione leninista-trockista e per aver pubblicato e diffuso il testamento di Lenin (in cui si esprimevano alcune riserve su Stalin). Nel 1937 viene inviato nei campi di lavoro della Kolyma, definita da Aleksandr Solzenicyn «l'ultimo cerchio del sistema». Dopo la morte di Stalin, Salamov torna a Mosca e comincia a scrivere i Racconti di Kolyma (pubblicati in due volumi da Einaudi). Sul frontespizio del primo volume viene stampato il motto di Salamov: «Con quale facilità l'uomo si dimentica di essere un uomo». Lo scrittore, le cui opere vengono tradotte in tutto il mondo, verrà riabilitato per le accuse del 1929, ma solo nel 2000, a 18 anni dalla sua scomparsa e 15 anni dopo l'inizio della perestrojka.
Il motto di Salamov trova purtroppo riscontro ancora nelle tragedie di oggi. È sufficiente ricordare, per tutte, il genocidio dimenticato, quello del Darfur in Sudan, con 300 mila vittime. C'è un libro recentissimo che ricorda però un'altra spaventosa tragedia, quella dei massacri della dittatura argentina: Il mio nome è Victoria di Victoria Donda (Corbaccio). L'autrice è una giovane parlamentare argentina che racconta la sua storia. Nel 1977 i suoi genitori furono sequestrati dai militari. Il padre fu subito ucciso, mentre alla madre, incinta di cinque mesi, fu consentito di partorire prima di essere assassinata. Victoria fu data in adozione a una famiglia vicina al regime, col nome di Analia. Scopre solo nel 2005, per merito delle «Donne di Plaza de Mayo», la sua storia. A quel punto la sua identità crolla e alla fine si ritrova, a 27 anni, a nascere per la seconda volta, consapevole del male che ha subito e che con lei hanno condiviso migliaia di giovani della sua generazione per colpa di generali assassini di un regime dittatoriale. È proprio vero: «Con quale facilità l'uomo si dimentica di essere uomo».

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