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Papa in sinagoga, un passo avanti verso la riconciliazione

Ventiquattro anni dopo Karol Wojtyla, anche il suo successore ha sentito l'urgenza di varcare la soglia della sinagoga di Roma, per compiere un gesto simbolico di fraternità e, forse, per rinnovare tacitamente la richiesta di perdono dei lunghi secoli di persecuzione da parte dei cristiani nei confronti degli ebrei. Al di là delle polemiche sul comportamento di Pio XII, è questo enorme debito - storicamente innegabile - che giustifica il riferimento alle "ferite ancora aperte" di cui ha parlato il presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici. Per troppo tempo, ben prima della persecuzione nazista, i connazionali di Gesù sono stati sistematicamente oggetto dello scherno, dell'emarginazione, perfino dell'odio della maggioranza cristiana. Le motivazioni ultime di questa ostilità sono state spesso, in realtà, di natura ben più prosaica dei pretesi argomenti religiosi e legate, piuttosto, al ruolo svolto da molti ebrei a livello economico e finanziario. Ma è certo che le Chiese, per quasi duemila anni, hanno avallato, con l'accusa di deicidio, questi comportamenti. Paradossalmente: perché, se c'è una cosa su cui non può esserci discussione, è che Cristo era un ebreo (e tale rimane per sempre, nella sua umanità) e che, se fosse vissuto in epoca cristiana, sarebbe stato perseguitato, insieme a tutto il suo popolo, dai propri stessi seguaci.
È vero che ormai da diversi anni la Chiesa ha felicemente invertito la sua linea teologico-culturale e il suo atteggiamento pratico. Di questa svolta sono una rinnovata ed eloquente testimonianza la visita di Benedetto XVI e il suo atteggiamento di profondo rispetto davanti ai superstiti dei lager nazisti, rappresentanti, in qualche modo, di tutti i membri del popolo eletto torturati e uccisi nella storia.
È altrettanto vero, però, che non si può pretendere dalle vittime di ieri, anche in questa nuova fase storica di riconciliazione, di rinunziare alla dolorosa memoria di quanto è accaduto e di cui sono stati responsabili non solo questo o quel papa, ma le cristianità - laici compresi! - che si sono succedute fino a qualche tempo fa sia in Oriente che in Occidente.
È questo sfondo oscuro a spiegare l'esasperazione e le tenaci critiche nei confronti di Pio XII, che hanno continuato ad affiorare anche negli accenni, diretti e indiretti, fatti dai rappresentanti della comunità ebraica, per esempio in quello di Riccardo Di Segni riguardo alla differenza tra il silenzio di Dio, che è un mistero, e quello dell'uomo, che invece può essere oggetto di giudizio.
La questione è da lungo tempo dibattuta e forse non avrà mai una soluzione. Dal punto di vista storico, due cose non si possono negare: una è che Pio XII non prese mai pubblicamente posizione contro l'Olocausto; l'altra è che molti cattolici e lo stesso Vaticano, di fatto, si esposero, offrendo rifugio agli ebrei perseguitati dai nazisti. A seconda che si insista sulla prima o sulla seconda - in entrambi i casi a buon diritto - , si perviene a un severissimo giudizio sulla condotta del pontefice, oppure a una sua piena giustificazione.
L'argomento-base di questa giustificazione, è noto, consiste nell'evidenziare che una condanna ufficiale del nazismo avrebbe provocato una reazione spaventosa nei confronti dei milioni di cattolici già duramente provati da un regime che - questo sì - aveva sempre ostentato la sua lontananza e opposizione al cristianesimo. Una esigenza diplomatica, certamente, ma che aveva come posta in gioco non solo e non tanto i rapporti tra il Vaticano e Berlino, quanto la vita di tanta povera gente che sarebbe stata sacrificata senza alcun beneficio concreto per gli ebrei perseguitati.
Come non sarebbe giusto ignorare la forza di questa considerazione, non è possibile, però, non avvertire la serietà di quella fatta dal presidente della comunità ebraica di Roma, quando ha osservato che la pubblica solidarietà del papa "forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz".
Il fatto è che siamo davanti a un abisso di male e di dolore di fronte a cui è difficile, per noi, erigerci a giudici. La verità, come spesso accade, si nasconde in un gioco di luci e di ombre, che rendono difficile un bilancio netto. Forse sia gli accusatori che i difensori a tutti i costi dovrebbero prenderne coscienza. Anche chi critica Pio XII, probabilmente, può onestamente capirne l'angoscia e chiedersi cosa avrebbe fatto al suo posto. Ed anche chi lo difende senza esitazioni forse dovrebbe interrogarsi sul rischio che la Chiesa come istituzione a volte corre - e non solo nel passato - di far prevalere delle ragioni umane, sia pure legittimamente orientate a un bene, sulla "follia" del Vangelo.
La visita di Benedetto XVI alla sinagoga non ha sciolto - né poteva farlo - questi nodi. Ma è stato un passo avanti verso la riconciliazione. E ha ricordato a tutti - anche ai cattolici - quello che Paolo solennemente ha affermato, e cioè che Dio non ha revocato le sue promesse al popolo dell'Alleanza e che essi sono veramente, in Lui, nostri fratelli.

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