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Finanza, l'atto di accusa di Obama

Potrebbe essere il segnale di una vera svolta. Vera e profonda, una alterazione degli equilibri che negli ultimi anni hanno retto l'economia americana con i risultati che si sono visti con la catastrofe finanziaria del 2008 e che potrebbero ripetersi, anche a breve scadenza, in assenza, appunto, di un'iniziativa di «rottura» da parte non soltanto della Casa Bianca ma dell'intera «America politica» nei confronti della «America finanziaria». Un rapporto che si delinea sempre di più come perverso e che da tempo è stato definito in una formula: «Wall Street intimidisce Washington». Intimidisce o, in una versione analoga e ancor più arrabbiata, «ricatta Washington». Certo Obama si è comportato fino all'altro giorno nel modo più cauto possibile nei confronti degli istituti, delle persone e soprattutto delle abitudini che si sono venute instaurando nello scorso decennio. Una cautela che tutti consideravano fino a un certo punto doverosa, inclusa una decisione impopolare come il «regalo» di migliaia di miliardi alle grandi banche nella convinzione, tutt'altro che campata in aria, che altrimenti queste ultime sarebbero potute finire in bancarotta con la conseguenza della paralisi dell'intero sistema finanziario non solo degli Stati Uniti ma del mondo.
I sussidi hanno continuato a fluire, con generosità senza precedenti non intaccata dalle rade bacchettate sulle dita delle iniziative legislative per limitare le cascate di miliardi ai dirigenti e agli speculatori che si sono così arricchiti mentre tutti gli altri americani erano costretti a stringersi la cinghia. Una situazione sintetizzata in una vignetta di San Silvestro: un altopiano interrotto da un baratro senza fondo targato di qui 2009 e di là 2010 e un finanziere che con passo baldo e largo sorriso lo valica reggendo una gonfia valigetta con scritto Wall Street camminando sulla schiena dell'«americano medio» che fa da ponte aggrappato con i piedi in un anno e le mani a quell'altro e reggendo una catena di familiari e colleghi appesi nell'abisso.
La realpolitik economica ha indotto la Casa Bianca a tollerare a lungo un tale rapporto pressoché surreale. La pazienza è saltata alla chiusura dei bilanci, quando si è visto che i guadagni di questi speculatori sono ripresi a salire vertiginosamente e, quel che è peggio, i responsabili beneficati hanno ricominciato tranquillamente le stesse manovre «spregiudicate» che sono la causa del disastro. La recessione per loro è finita, ma per novanta americani su cento continua. Il mercato edilizio è sempre a pezzi, la ripresa industriale non è in vista, l'economia nel suo complesso ristagna, la disoccupazione si «stabilizza» al di sopra di un impensabile 10 per cento, le banche incassano ma non prestano. O meglio, si prestano fra di loro. La finanza Usa rischia di produrre una nuova «bolla» con i materiali di scarto di quella che è rovinosamente scoppiata. Una depressione è stata evitata, la depressione continua. Come se la crisi non avesse insegnato nulla. Le grandi banche sono ridiventate euforiche, Wall Street, pochi mesi dopo essere corsa a Washington col cappello in mano, riprende a dettare a Washington la propria volontà.
Di qui il «j'accuse» di Obama, che pare essersi scosso dalla timidezza quasi reverenziale del suo primo anno di presidenza. È lui in persona a leggere ora l'atto d'accusa, a parlare di irresponsabilità delle istituzioni finanziarie che hanno scommesso col denaro preso a prestito perseguendo profitti a breve a rischi altissimi, che adottano il metodo, parole di Obama nel suo discorso del sabato, «prendi i soldi e scappa; ma questo non glielo consentiremo». In concreto Washington si difende ora istituendo un prelievo straordinario sugli istituti di credito, proporzionato ai benefici che essi hanno tratto dalle misure di salvataggio. Una strategia designata ad abbassare il rischio di quello che sarebbe il terzo crac in poco più di un ventennio. Negli anni Novanta ci fu quello dei titoli ad alta tecnologia, che però produsse danni in un'area limitata dell'economia. Negli ultimi tre anni, invece, si è gonfiata la «bolla» dell'edilizia e di operazioni finanziarie che hanno reso profitti immensi fino al giorno del crollo le cui spese sono state fatte dagli altri. Per esempio in diciotto anni i bonus ai dirigenti sono cresciuti del 200 per cento mentre il reddito medio delle famiglie Usa è rimasto stagnante. Ora sembra giunto il momento del «basta» e della rivincita della politica. Come se l'Amministrazione avesse smesso di piegarsi ai ricatti di Wall Street. E cominciasse invece a temere la reazione degli elettori. Di cui potrebbero esserci i primi segni già domani quando uno Stato tradizionalmente «liberale» come il Massachusetts va alle urne per eleggere il senatore destinato a succedere a Ted Kennedy. E il malumore gonfia le aspettative per un voto di protesta in favore dei repubblicani.
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