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Sisma ad Haiti, l’esperto: la potenza di 25 nucleari

Giunta, ordinario di Geologia a Palermo: “È una regione estremamente pericolosa dal punto di vista sismico. In quell'area ci sono decine di terremoti al giorno, anche se di piccola entità”

Palermo. “Un terremoto di magnitudo 7 rilascia un'energia pari a circa 500 mila tonnellate di tritolo, assimilabile, grossomodo, a quella di 25 bombe nucleari”. È un paragone impressionante sul sisma di Haiti quello che ci fornisce il professor Giuseppe Giunta, coordinatore per l'Università di Palermo del progetto della Cooperazione Italiana (ministero degli Esteri) sull'analisi delle pericolosità naturali in Centro America. Un paragone ancora più sconcertante se si ricorda che il sisma ha colpito una delle regioni più povere al mondo, in cui di certo le case non erano a norma antisismica, vero professore? “Non solo - aggiunge Giunta, che è anche ordinario di Geologia strutturale all'Università di Palermo - lungo questa faglia esistono delle mappe di pericolosità simica e giusto la porzione su cui si trova Haiti, detta di Enriquillo, non è classificata come estremamente pericolosa, perché l'ultimo terremoto di grossa entità risale al 1860 e prima ancora al 1770, 1761 e 1751”.
Ma quella del Centro America non è una zona altamente sismica?
“Assolutamente sì, è una regione estremamente pericolosa dal punto di vista sismico e noi la studiamo da anni. In quell'area ci sono decine di terremoti al giorno, anche se di piccola entità e ciò perché è situata sopra una delle grandi faglie che limita la porzione settentrionale della placca caraibica, una faglia del tipo di quella di San Andrea in California”.
La faglia è una frattura della crosta terrestre, ma che succede alle due parti del pianeta separate?
“Si tratta di un sistema di faglie lunghissimo che va dal Guatemala fino a nord di Portorico e la placca caraibica, dove si trova la penisola sud occidentale di Haiti, si muove verso l'Atlantico mediamente di circa 7 millimetri l'anno, mentre il Nord America (che geologicamente, per uno scherzo della natura, comprende anche Cuba) si sposta verso il Pacifico. Consideri che circa il 98% delle deformazioni della crosta terrestre avviene in maniera asismica, ossia in assenza di terremoti. Nel restante 2%, invece, il movimento non è graduale e la faglia rilascia istantaneamente l'energia elastica accumulata che poi viene avvertita sotto forma di terremoto. Qui il movimento delle due porzioni della faglia è a carattere orizzontale senza sollevamento di un blocco rispetto all'altro, e questo ha evitato il rischio tsunami”.
È possibile collegare questo evento sismico ad altri del passato o del prossimo futuro?
“Va analizzata la storia sismica della regione e comunque occorre aspettare almeno 24 ore prima di ritenere concluso l'evento sismico principale. Solitamente non si registra un'altra scossa così importante nel breve periodo, ma è sempre possibile che accada. Su questa stessa sistema di faglie abbiamo avuto recenti terremoti di tale entità, nel 1976 in Guatemala e nel 2009 in Honduras: eventi non innescati l'uno dall'altro, ma che dal punto di vista geodinamico hanno le stesse caratteristiche e sono compatibili fra loro”.
I terremoti restano dunque eventi non prevedibili?
“Purtroppo non possiamo prevedere quando. Possiamo però dettagliare le carte sismo-tettoniche che forniscono indicazioni sulle aree a maggiore pericolosità sismica, individuando perché avviene un terremoto in una determinata regione e come si verifica rispetto alla storia sismica di quell'area”.
Qual è allora il futuro di queste regioni?
“Imparare a convivere con i terremoti e gli altri eventi naturali, come le eruzioni vulcaniche o eventi meteorici estremi che generano frane e alluvioni. L'unica difesa è studiare molto in dettaglio questi fenomeni pericolosi in modo da avere gli strumenti per mitigare il rischio e il danno quando l'evento si ripresenterà. Basti guardare l'esempio di Giappone e California, basta costruire a regola d'arte con criteri antisismici. Basta trattare il territorio in maniera meno impattante, senza deforestare o alterare i corsi d'acqua. E poi istruire la popolazione: purtroppo abbiamo l'abitudine a dimenticare e questo è il problema più grande se si vuol costruire una cultura dei rischi naturali”.

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