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Amia. Il diritto non è solo lo stipendio, ma il lavoro

Si chiama Amia; si occupa di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Oltre al ritiro immondizie, lava le strade, recupera le siringhe usate, pulisce i mercati rionali, cancella le scritte abusive, ritira gratuitamente a domicilio i rifiuti ingombranti, raccoglie separatamente carta, plastica, vetro, alluminio, pile esauste e farmaci scaduti, derattizza e disinfesta aree pubbliche, effettua la manutenzione delle fontane e si prende cura di 2,5 milioni di metri quadrati di aree a verde di proprietà comunale. Ha in carico un bacino di oltre 315 mila abitanti, ma conta appena 417 dipendenti!
Il lettore avrà inteso che non ci riferiamo a Palermo. In realtà, stiamo descrivendo la società di igiene ambientale di Verona; una città nella quale due persone in 100 metri quadri pagano 130 euro all'anno per il ritiro dei rifiuti! Anche a Verona la società dei rifiuti si chiama Amia; ma le similitudini con Palermo finiscono qui. Chiunque abbia visitato la pulitissima città scaligera, potrà effettuare qualche raffronto con la capitale della Sicilia. Certo, si dirà, Verona è una piccola città. Ma il confronto non dà esiti diversi rispetto a molte altre realtà urbane. A Torino, ad esempio, la società Amiat smaltisce rifiuti per un bacino di circa un milione di abitanti con 2.136 dipendenti; Amiv Genova serve 700 mila abitanti con 1.800 dipendenti.
Numeri stratosfericamente lontani da Palermo che conta 650 mila abitati e dove lo stesso servizio di Amia Verona, di Amiat Torino o di Amiv Genova vede impegnate, ad essere generosi, almeno sette mila unità! Del resto, il Comune di Palermo occupa tra diretti e indiretti qualche cosa come quindici mila persone. Per gestire tante risorse umane servono risorse finanziarie sempre nuove. Il comune di Palermo spende circa 400 milioni di euro all'anno per stipendi; solo un rinnovo contrattuale costa 20 milioni di euro all’anno. Stiamo andando verso il federalismo fiscale e quindi non c’è più da sperare in nuovi fondi statali. Né d'altra parte è una questione che si può pensare di risolvere imponendo sempre maggiori tasse, né tantomeno può aiutare la finanza «creativa». Si tratta di un problema gigantesco, frutto di una politica dissennata che per decenni ha affidato soltanto allo stipendio pubblico il compito, ingrato, di risolvere i problemi della sottoccupazione.
Al punto in cui siamo, anche se oggi dovessimo tutti rinsavire, la «quartara» sarebbe comunque irrimediabilmente rotta. Certo quando ci sono in ballo decine di migliaia di posti di lavoro, bisogna porsi il problema sociale che, ragionevolmente, non può essere scaricato sulla gente. Ma è ormai irrinunciabile una presa di coscienza collettiva. Gli amministratori, le forze politiche, i sindacati e gli stessi lavoratori devono maturare una semplice verità. Il diritto non è solo lo stipendio, ma il lavoro.

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