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Per le riforme, buon anno

Di seguito pubblichiamo l'editoriale di Capodanno del Giornale di Sicilia. In questa sezione verranno pubblicate le lettere inviate dai lettori e la risposta della direzione del giornale.
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L’anno si chiude con conosciuti spettri che cavalcano la scena. Il terrorismo riappare vegeto. Centinaia di americani hanno rischiato la morte. Viaggiando in un aereo qualunque in un giorno qualunque. Un siciliano e la moglie africana la morte la rischiano ancora. Al Qaeda annuncia venticinque martiri pronti all’attacco. Rilancia messaggi macabri al mondo: «Abbiamo addestrato uomini che amano morire...». Solo che amano anche uccidere. E uccidono. Obama dalle vacanze raccoglie la sfida: «Daremo la caccia ai terroristi ovunque. Non solo in difesa ma all’attacco...». E risuonano le stesse parole che un tempo pronunciava George Bush... In Iran si muore per affermare il diritto al dissenso, alla democrazia, alla vita. Ma i fanatici di un regime cieco e opprimente non mollano la presa. Preferiremmo dimenticare. Dobbiamo invece ricordare un dato tanto semplice quanto tragico. L’Occidente è in pericolo. Dobbiamo difenderci da nemici che hanno proclamato una guerra perentoria e irriducibile.
In questo quadro pensiamo alla nostra Italia. Proprio nell’anno che si chiude con una foto simbolo. Il volto di Silvio Berlusconi insanguinato. Colpito da uno squilibrato. In un clima politico popolato da estremismo e furori. Si parla adesso di nuova fase. Prevale (nelle parole almeno) l’idea di rendere le nostre istituzioni più forti e moderne con riforme che realizzino una democrazia efficiente. Si auspica un nuovo clima. Un confronto tra avversari dopo le guerre tra nemici. Parole già pronunciate, già sentite. Finora senza seguito. Perché? La domanda si ripropone. Di anno in anno. Proviamo a dare una risposta. Non senza dubbi. Non senza incertezze.
Tutto comincia nel ‘94. Un imprenditore di successo irrompe nel mondo della politica. Quando questo è sconvolto dagli scandali che decapitano un’intera classe dirigente (con l’unica eccezione del Pci). Compie atti mai visti. Sdogana una destra (quella guidata da Gianfranco Fini) votata all’isolamento. Realizza alleanze impensabili. Vince le elezioni. Ma non sposta solo gli equilibri elettorali. Sposta un intero Paese. Mette in crisi il modello di partito di massa. Crea un rapporto diretto tra premier e popolo. Impone un modo nuovo di fare politica. Non contano più i segretari di partito. O i governi. Conta la leadership. La capacità di sedurre. Per questo vince Berlusconi. Per questo la politica tradizionale lo accetta prima per necessità e lo respinge dopo come alieno, quasi un marziano. Ma Berlusconi vinceva perché era dentro la società italiana mentre i partiti ne erano fuori. Egli intercettava pulsioni e sentimenti che altri non vedevano. Sempre più gli italiani stanchi della politica e dei suoi riti rifiutavano i partiti, si lasciavano irretire dalla tv, chiedevano rapporti diretti con i leaders. Erano insofferenti ai protocolli. Ai tavoli e ai vertici. Alle commissioni e ai convegni. Volevano informalità. Chiedevano atteggiamenti irrituali. C’era già stato un segnale di tutto questo nel successo di presidenti come Pertini e Cossiga. L’Esternatore e il Picconatore. Berlusconi capiva tutto e scendeva in campo con risposte adeguate. I partiti della vecchia politica no.
Ecco la svolta che oggi si impone. Non si tratta di odiare o amare Berlusconi. Ma ragionare sul grande consenso di cui ancora è destinatario. Perché, per la maggioranza degli italiani, non senza appannamenti e contraddizione, è ancora portatore di una volontà di cambiamento in cui la gente si riconosce. Delle istituzioni in primo luogo. Luigi Pirandello diceva che le istituzioni sono «l’espressione esteriore della vita interiore di un popolo». Ma questa corrispondenza in Italia non c’è più. Ci vogliono riforme perché non possiamo restare l’unico Paese con due Camere che fanno le stesse cose. Dove l’approvazione di un singolo comma richiede da sei a otto voti. E’ necessario un maggiore equilibrio tra i poteri. Perché il Parlamento controlla poco e paralizza molto l’azione dei governi. Perché il governo deve essere al servizio del premier che trova la sua forza nel consenso elettorale. Non è più rinviabile, poi, un nuovo rapporto tra politica e giustizia. I giudici devono essere indipendenti dalla politica e dai governi. Ma anche questi ultimi devono essere indipendenti dalla prima. In Italia non è più così. C’è uno squilibrio che vede la magistratura prevalere sul parlamento e sul governo. Ma senza un equilibrio si logora la democrazia. Sta qui la vera svolta. Va realizzata nei modi più condivisi. Ma senza ipocrisia. È giusto sollevare allarme quando le istituzioni sono sotto attacco. Purché non si dimentichi che anche il governo è un’istituzione. Se poi si devono correggere disfunzioni e anomalie con una riforma della giustizia, è giusto opporsi a provvedimenti ad personam. Purché non si entri nel percorso opposto di provvedimenti contra personam. Se si riformano i processi, non si possono escludere quelli che riguardano il premier. Perché questi sono frutto delle disfunzioni e delle anomalie che si vogliono correggere. Se si vuole poi realizzare pienamente una reciproca autonomia tra politica e giustizia il modo migliore per farlo è quello di introdurre l’immunità parlamentare. Così come vollero, con lungimiranza, i nostri costituenti. Così come avviene ancora oggi nel Parlamento europeo.
Sappiamo che questa insistenza sulle riforme istituzionali non convince alcuni. I quali credono che altre sono le priorità in tempo di crisi. Quando l’economia ancora è dentro un tunnel, i livelli di povertà aumentano e l’occupazione è esposta al rischio di ulteriori flessioni. Senza poteri in equilibrio, uno Stato non funziona. Non ha forza né capacità di decidere le scelte difficili che il momento richiede.Le riforme sono necessarie proprio per avvicinare le istituzioni alla gente. Si dice che l’economia, nella crisi planetaria, ha tenuto bene. Meglio di altri in Europa. È vero. Ma “tenere” significa rassegnarsi ad un’economia che arranca. Con il deficit pubblico più alto d’Europa, con una fiscalità straripante, con un sistema industriale ingessato da lacci e lacciuoli. Invece è necessario un colpo d’ala. Un mercato più libero con imprese più forti in grado di competere nei mercati globali. Dove emergono nuovi Paesi, nuove realtà. Ma non c’è colpo d’ala senza istituzioni efficienti. Questo vale per tutti. Per il Nord e per il Sud. E per questa nostra Sicilia. Dove l’anno si chiude tra confusione politica e prospettive incerte. Proprio ad essa vogliamo dedicare il nostro brindisi. Perché ottenga dall’Italia e dal mondo solidarietà e attenzioni. E perché sappia richiamare capitali e iniziative di sviluppo. Ben sapendo che tanto più riuscirà a farlo quanto più sarà in grado di coinvolgere quelli che possono e vogliono aiutarla (possono non esser pochi). Buon anno.

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