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L’oracolo internettiano e la democrazia dei guru

Salvato dalla rete. Di cui è in parte espressione. La metafora di un governo che poggia da sempre sulle fragili basi di un matrimonio di mero interesse. Che ha fatto della rete il proprio proscenio e il proprio sfogatoio. Che con la rete ha deciso di azzerare ogni filtro di garanzia fra se stesso e il popolo italiano, o almeno quello a forte tasso social. Che alla rete affida di fatto il suo presente e il suo futuro.

Rousseau o non Rousseau, però, che Salvini debba o meno andare a processo lo deciderà comunque il Senato. E appare quanto mai corretto e opportuno l’invio ai giudici di Catania degli atti firmati anche da Conte, Di Maio e Toninelli a proposito delle scelte fatte sul caso Diciotti. Che sono scelte di governo. Perché se è vero che per la Costituzione la responsabilità penale è personale, è altrettanto vero che Salvini ha agito a nome dell’esecutivo di cui fa parte. E dal quale non è stato di certo sfiduciato o cacciato per le sue decisioni. Tutt’altro. L’esito del voto online sembra chiaro: siamo con Salvini, si vada avanti. E pazienza se anche in questo caso il M5S - pur spaccato a metà - abbia mandato alle ortiche la propria verginità.

Ciò non toglie però che desta enormi perplessità l’opportunità di delegare una scelta così importante alla massa informe della rete. Questo è abdicare al mandato parlamentare ricevuto dalle urne. Un mandato che determina il dovere di scegliere, non il diritto di non sapere-volere scegliere. A meno che – e questo apparirebbe il vero motivo del ricorso alla piattaforma – il M5S non ha deciso di testare col proprio corpo elettorale la tenuta davanti all’ingombrante alleato. Il cui appeal elettorale da mesi cresce di pari passo all’intorbidimento degli entusiasmi pentastellati.

Il governo delle troppe contraddizioni e degli altrettanti tentennamenti esce in ogni caso claudicante da questa sorta di improbabile check up. Troppi temi rimangono ancora in ballo a dividere le due anime dell’esecutivo. Che, non a caso, viaggiano in assoluta indipendenza l’una dall’altra verso il voto delle europee di maggio. La disfida sulla Tav o il dibattito a tinte fosche sulle autonomie – solo per citare gli ultimi due casi in ordine di tempo - danno la misura di un governo bipolare. Al punto che ogni singolo tema viene utilizzato come merce di scambio in un gioco a rimbalzo da do ut des. Se poi a ciò si aggiunge che alle ragioni dell’una o dell’altra sponda vengono piegate anche valutazioni espressamente tecniche che nulla dovrebbero avere di politico (le perizie e le analisi sulla Tav valgono un soldo bucato, vista la loro plateale e dichiarata matrice di parte), si finisce per restare intrappolati in un perenne duello giocato sulle sorti del Paese. Sorti che ogni rilevatore sociale, economico o finanziario terzo – e di questo Di Maio e Salvini se ne facciano una ragione prima o poi – addita da mesi come pericolosamente tendenti al depresso.

L’apertura, tutt’altro che velata, del sottosegretario Giorgetti (l’eminenza grigia della Lega) a una prossima necessaria manovra correttiva rimette in ballo l’equilibrio – a cui in pochi credono – dei conti pubblici. C’è quel peso del debito che grava come un enorme macigno sul Pil e che a Roma vorrebbero provare a smorzare con il mega piano di privatizzazioni da 18 miliardi di euro. Ma come può un governo che continua ad attorcigliarsi su ogni singolo punto del suo mandato (al mantra del contratto ormai non crede più nessuno), trovare la quadra su un tema così importante e delicato come la dismissione del proprio patrimonio? O dovremo abituarci a invocare ogni volta l’oracolo internettiano per farci illuminare sulla via da intraprendere? Il guru del post grillismo Davide Casaleggio, del resto, lo ha ormai vaticinato: il superamento della democrazia rappresentativa è ormai inevitabile. Basterà un clic. Fra un like e un happy hour.

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