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Mario Francese, la missione della memoria

I 300 ragazzi della media Pecoraro strettisi in un grande abbraccio attorno alla loro scuola nella (un po’ malandata) piazza a lui intitolata; i 28 pannelli allestiti in mostra dai liceali del Damiani Almeyda nel neonato No Mafia Memorial. Due numeri che aggiungono peso e valore a quel 40 che stamattina accompagnerà la commemorazione ufficiale e il ricordo di Mario Francese.

Quaranta, tanti quanti sono gli anni passati da quel tragico 26 gennaio del 1979, in cui i killer della mafia ponevano fine alla missione del cronista giudiziario del Giornale di Sicilia.

Missione, appunto. La narrazione come formazione di nuove coscienze, la cronaca come educazione alla legalità, la verità come preparazione del futuro. Mario Francese non faceva l’eroe, né ovviamente ambiva al martirio. Semplicemente rappresentava l’essenza del suo mestiere: scavava, indagava, verificava e infine raccontava, avendo nella certezza del fine – cioè la rappresentazione del reale – la sua unica missione.

Fu lui, sulle pagine di questo giornale, a mappare per primo gli equilibri, gli interessi e i legami criminali di Cosa nostra. Che con lui aprì la lunga stagione di sangue (e dei paralleli veleni). In questi quattro decenni si è vissuta l’intera parabola della fenomenologia mafiosa: germogliata nel sottobosco del disagio sociale e dell’inedia investigativa; sviluppatasi fino a condizionare interessi economici e politici; deflagrata negli anni del crescendo rossiniano delle guerre interne, degli omicidi eccellenti e delle stragi; riemersa da processi, sentenze e ribellioni sociali; riconvertitasi da muscolare e sanguinaria a corruttiva e collusiva.

I successi legislativi, investigativi e militari dello Stato, così come la progressiva presa di coscienza dei cittadini soggiogati da logiche mafiose o dei commercianti oppressi dal racket, possono però rappresentare solo tappe parziali di un processo che può impennare verso il sospirato completamento soltanto quando sarà efficace e concreta l’educazione dei giovani a nuovi modelli etici e morali.

Missione, appunto. È sulle nuove generazioni che si può confidare ed è sul valore della memoria come prospettiva che si deve puntare. Non è banale teorizzazione, semmai ardua ambizione, ma che va comunque perseguita. Perché è vero che oggi ci sono una maggiore consapevolezza e una più robusta capacità di discernimento fra legalità e illegalità da parte dei giovani, ma è altrettanto vero che queste non possono prescindere dalla necessità di una perfetta cognizione del presente.

Il sondaggio commissionato a Demopolis dall’Ordine dei giornalisti in occasione del ricordo di Francese da un lato evidenzia in linea teorica l’interesse dei millennials nei confronti della funzione del giornalismo per una corretta informazione dei cittadini, dall’altro però certifica la sempre minore propensione a informarsi e documentarsi, se non attraverso la giungla social nella quale spesso i ragazzi si perdono.

Eppure, al di là dei mezzi scelti – la progressiva e non per forza evolutiva transumanza dalla carta stampata a internet è tuttora in corso – dall’indagine emerge che il 70% dei giovani si dichiara interessato al giornalismo d’inchiesta e di denuncia. Le nuove generazioni lo vorrebbero più presente sui media italiani. Confortante percentuale, se calata in un’attualità in cui il mondo dell’editoria legata all’informazione viene troppo spesso visto – dai nuovi apparati politici che timonano il Paese – come un fastidioso nemico da osteggiare fino a progressivamente sopprimere. Il giornalismo è oggi più che mai baluardo di democrazia e libertà. Anche senza il bisogno di doverlo ribadire ogni volta, trovandosi a celebrare i suoi tanti martiri.

Ecco perché l’anniversario dell’assassinio di Mario Francese deve rappresentare una missione da perseguire e rinnovare. Ed ecco perché quei 300 ragazzi abbracciatisi in piazza e quei 28 pannelli messi in mostra sono i numeri e i valori più importanti di una memoria che si perpetua da 40 anni.

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