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In direzione ostinata e contraria: 20 anni senza De Andrè, il poeta della canzone che scrisse tutti noi

Scrivere su Fabrizio De Andrè è un pò come pretendere di piazzare il carro davanti ai buoi: è lui che ci ha scritti, tutti. E farlo in queste ore che ci ricordano che è da 20 anni che non c’è più, è forse ancora più strano. Se n’è andato a 59 anni Faber, ma ha fatto ampiamente in tempo a marchiare a fuoco la cultura italiana contemporanea, e non solo quella musicale. Perché se c’è uno che ha saputo annusare, sbandierare, accarezzare e insomma scovare sul serio la (e le) società del nostro tempo, questi è stato Fabrizio De Andrè.

Chiaro, per fortuna non è stato il solo. Con penna e cinepresa Pasolini ha stanato presto i nostri stomaci, le periferie delle nostre città e dei nostri animi, in una lucida ed ebbra autopsia dell’Italia in metamorfosi, dell’Italia a pezzetti, stesa in mezzo a fratelli distanti. Di cifra diversa ma di qualità non meno lucida e alta la forza illuminante di Calvino, che calandoci in altre città, alcune invisibili, ha enucleato le nostre minime e siderali meccaniche di senso, genio, affetto, nevrosi. Ma, a volersene prendere le responsabilità, l’elenco potrebbe continuare, e in vari campi, basti pensare ad altri grandi vecchi come Indro Montanelli o, per tornare al cinema, Monicelli, che hanno caratterizzato con opere e pensieri questo nostro tempo in questo nostro stivale.

E De Andrè? Cosa c’entra un cantautore anarchico dalla palpebra pigra con questi signori? Forse De Andrè ha scritto pure loro? In qualche modo si direbbe di sì. Fabrizio de Andrè è stata la voce anticonformista che ci ha sfiorati tutti, ma proprio tutti, e si sta parlando di generazioni. Si parla di decenni che somigliano a sostanziosi pezzi di  storia. E che si sta parlando in primis di poesia, lo sanno da tempo pure le antologie scolastiche, e menomale: per una volta non si è attesa la morte del poeta per accorgersi della sua vita, e della sua parola. Certo, la morte ha contribuito a innescare l’inevitabile molotov commerciale. Dischi e libri e dischi e libri, all'idealizzazione dell'uomo. Lui stesso si definiva uno degli esseri più imperfetti che fossero mai esistiti, ma si sa, la Vecchia Signora con la Falce è sempre un lavacro alle pene in vita.

Sbagliato, certo, ma non perchè ci si riconosca nelle sue canzoni, non solo e sarebbe troppo semplice.  Forse proprio qui un suo segno precipuo che, al di là della tentazione di trovargli compagnia scomodando i citati signori e chissà chi altri, rende un pò della sua unicità: De Andrè ha avuto quella speciale qualità che possiede chi sa suscitare negli altri, trovando un mezzo pregnante per farlo, la voglia di guardare il mondo da tante finestre, le cose e le persone da più punti di vista. Chi sa emozionare senza drogare, riuscendo a farsi parlare dal cuore delle cose, rovesciando le convenzioni e buone maniere senza il bisogno di gridare troppo forte. Certo, ormai è un mito, suo malgrado.

Tutta colpa di Marinella, di Piero e della sua guerra, dell’illustre cugino De Andrade, di Princesa, del Chimico che morì un esperimento sbagliato come gli idioti che muoion d’amore, di Tito che scoprì la pietà che non cede al rancore, dell’uomo onesto e probo che morì contento e innamorato, del Michè che si impiccò perché non poteva restare lontano da Morì, del Giudice finalmente arbitro in terra del bene e del male, del Bombarolo che cercava il luogo idoneo adatto al suo tritolo, del Carlo Martello scritto con un altro genio diventato icona, Paolo Villaggio in arte Fantozzi,  e di altri innumerevoli personaggi.

A ben vedere, scavando la lingua italiana e i suoi dialetti, scrivendo “io” con parsimonia, sapendo come affrontare la politica senza farsene sopraffare (la politica di De Andrè vola sempre più in alto del potere), il cantautore genovese ha reso più che perfetti i suoi versi: li ha resi musica. Quella vibrazione che segna per sempre quando la voce insiste sul registro più basso.  Scrittore denso e spesso come pochi, De Andrè. A tratti marmoreo, fortunata complice la necessità – e la scelta - di confrontarsi con il formato canzone, con i suoi ritmi e stili. Confronto da cui escono vincenti entrambi: il poeta e la canzone.

Ha per sè e per noi non solo raccontato, ma immaginato e materializzato volti, vicende e vite per mezzo di canzoni. Ha raccolto i fili che legano la canzone d’autore contemporanea alla tradizione trovadorica e alle musiche provenzali, ai suoni mediterranei, allo spiritual e ai folk-singers. Sapendo anche guardarsi intorno, nella stagione fortunata del progressive e dell’art rock italiano. Il poeta (anche) con quei variegati fili ha composto una ragnatela, ove per i nostri animi fuggire dal suo canto è impossibile: c’è qualcosa che torna, qualcosa di tanto vero, qualcosa di profondo. C’è un attentato alle divisioni fra musica colta e popolare. C’è De Andrè che canta.

Proprio il suo carico particolare rende l’analisi dell’opera deandreiana un viaggio attraverso grandi e importanti nodi della riflessione, della critica culturale, della storie delle idee nostri. Itinerario che presenta insidie e meraviglie in egual misura: all’Autore dunque il timone. Ma quando è il momento zitti tutti, c’è De Andrè che canta. E si vorrebbe poter dire ancora: parli lui per noi. Dopo la sua morte, tutti i “miserabili” , persone irregolari che spesso sono tali per terribili colpi di sistemi sociali, di storture fisiche e psicologiche, che De Andrè aveva coccolato e difeso nelle sue canzoni, si sono sentiti un pò più soli.

Il Faber è unico per il semplice fatto che nessuno prima e dopo di lui ha parlato, nelle sue canzoni, di tanti e svariati argomenti, toccando praticamente tutti i punti dell’essere Uomo, colpendo al cuore ogni singola persona. Ha cantato gli ultimi, ha deriso i potenti, ha costruito l’amore a proprio modo, ha idealizzato il sesso, ha parlato della solitudine, ha cantato l’allegria, ha avuto un pensiero per i morti, per i suicidi. Ha parlato di Dio, con Dio, ha abbracciato Gesù come se fosse suo fratello, non più essere superiore ma principalmente uomo. Nessuno come lui  ha dimostrato che non si canta solo d’amore, in maniera frivola e scontata, ma è anche possibile, attraverso la canzone, raccontare storie, parlare di uomini, dire cose importanti attraverso le quali ci si può riconoscere.

E’ diventato il “poeta della canzone”, attraverso il quale tutti hanno una voce, più o meno forte, più o meno decisa, più o meno profonda. Interpretare il sentire collettivo, popolare. Probabilmente a volte è stato troppo duro, qualcuno non l’ha mai perdonato. Se n’è andato a 59 anni Faber, è vero, e tutti a dire: chissà cos’altro avrebbe scritto, cosa avrebbe visto di diverso rispetto a tutti noi, a tutti gli altri, o quale altro capolavoro avrebbe tirato fuori.

Tutto vero, ma sarebbe anche bello immaginarlo nella sua Genova o nella sua fattoria in Sardegna, con qualche capello bianco in più, con la sua Dori e la sua Luvi che gli accarezzano il ciuffo, cianciare ancora delle porcate con Cristiano, faccia al vento, e mai un pensiero, in direzione ostinata e contraria.

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