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Il consenso col fiato corto

Non piace all’Europa e non piace ai mercati. Non piace alle agenzie di rating e non piace alle banche. Non piace alle imprese e non piace ai sindacati. A chi giova dunque il progetto di manovra che - al netto di fantomatiche manine e fantasmagoriche promesse abolizioniste - rappresenta il caposaldo fondamentale su cui poggia l’azione di governo dell’esecutivo pentaleghista? Al sessanta per cento abbondante degli italiani, verrebbe da dire. Tanti quanti sarebbero quelli che, incrociando i barometri dei sondaggisti, oggi rivoterebbero per Salvini, Di Maio e le loro brigate elettorali. Più per il primo che per il secondo, a dire il vero, se vogliamo tenere per buona la curva del consenso originata dal voto dello scorso 4 marzo e che ieri ha portato la Lega a straripare anche in Trentino, fino a minacciare la corazzata altoatesina Svp.

Insomma, l’assioma appare semplice, ai limiti dell’inconfutabile: il governo gode della fiducia di una robusta maggioranza di italiani, perfino superiore a quella che portò idealmente le Cinque stelle sopra l’elmo e la spada sguainata di Alberto da Giussano lo scorso fine maggio, dopo settimane di tribolate trattative. Appare semplice, ribadiamo. Perchè, in realtà, l’attuale consenso poggia esclusivamente su impegni e promesse, i cui effetti pratici sulla vita (e soprattutto sui conti) degli italiani non si sono ancora manifestati.

Siamo nella fase della definizione di un percorso ancora da intraprendere, nella stesura a tavolino di una mappa, nel caricamento dei bagagli. Il motore deve ancora accendersi, la macchina gialloverde deve ancora iniziare il viaggio. Già, ma verso dove? Sta proprio qui il punto. È storicamente propria dei populismi, nati sulle ceneri di altrui fallimenti politici e complessivi decadentismi etici, la capacità di attrarre consenso e accumulare sostegno nell’immediato, in attesa di saggiarne poi la tenuta alla media-lunga distanza.

E dunque la domanda è drammaticamente la stessa da settimane: dove porterà il progetto economico del governo, quello che promette crescita e intanto gonfia il debito? Ieri Tria – nel disagevole compito di fare il ministro che garantisce i conti in un governo che dei conti si interessa poco – non ha esitato a mettere nero su bianco, rispondendo ai rimbrotti di Bruxelles, che la politica di bilancio adottata non è in linea con le regole della Ue. Ha parlato di una scelta «difficile ma necessaria» e ha rimandato il giudizio finale alle riforme strutturali previste dalla stessa. Solo che lo stesso ministro e con lui il premier Conte non mancano di sottolineare che se l’obiettivo del deficit/Pil al 2,4% dovesse saltare, verrebbero adottate misure alternative di contenimento della spesa. Ma quali, se nel frattempo la riforma della Fornero, il reddito di cittadinanza o il condono fiscale – per citare le tre più discusse e costose basi della manovra - avranno già cominciato a spendere e spandere miliardi di euro? O forse bisognerebbe chiedersi quando, volendo prendere per buone le fosche previsioni di Moscovici, secondo cui a pagare dazio saranno le generazioni future degli italiani (e rieccoci alla logica della miccia corta tipica dei governi a trazione populista).

Oggi dovrebbe arrivare il pronunciamento della Ue. E non si annunciano certo tenere carezze. Nel frattempo, i mercati traballano, i capitali emigrano, le agenzie di rating sforbiciano e le banche stringono i cordoni. Solo logiche speculative? Sembrerebbe proprio di no, se è vero che neanche le imprese fanno salti di gioia. Archiviato un forse involontario ma incauto endorsement leghista, ora anche il capo di Confindustria Vincenzo Boccia dice che la manovra va corretta, rafforzando la crescita. Le aziende chiedono investimenti, rifinanziamenti, opere pubbliche. Di cui non si ha al momento traccia. E invece – sentenzia il presidente dei giovani imprenditori Alessio Rossi - «la manovra appare come una lista di cambiali in bianco che dovranno pagare le nuove generazioni».

Anche i sindacati si compattano nel contestare le strategie dell’esecutivo, che – a detta di Cgil, Cisl e Uil – sarebbero inadeguate e carenti rispetto alle strategie per lo sviluppo e il lavoro. Una posizione che di per sé non fa notizia: stentiamo a ricordare in passato giudizi lusinghieri in materia di politica economica da parte delle sigle confederali nei confronti dei governi, di ogni schieramento e colore essi fossero. Ma comunque una posizione critica che allarga in modo trasversale ed eterogeneo il fronte del malumore e della preoccupazione. Certo, rimane quel 60% di consensi che induce questo governo a tenere la barra dritta, pur con qualche fibrillazione interna (barcollano ma non mollano, i numeri sono sufficientemente robusti). Ma, per dirla con lessico salviniano, siamo certi che al tirar delle somme la pacchia non possa finire? Attendiamo la macchina gialloverde lanciata sulla strada finora mappata a tavolino. E, visto che di manovra si parla, occhio alle derapate.

 

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