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Pignatone: don Pino ucciso per vendicarsi di Wojtyla

Il Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone

 Presentato a Roma, su iniziativa della Regione Lazio, il libro dedicato a don Pino Puglisi «Se ognuno fa qualcosa si può fare molto» (Bur-Rizzoli) del giornalista Francesco Deliziosi. Ne hanno parlato mons. Corrado Lorefice, il presidente Nicola Zingaretti e il procuratore Giuseppe Pignatone che ci ha inviato il suo intervento

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Il libro di Francesco Deliziosi che mi ha fatto conoscere meglio padre Puglisi, 3P come affettuosamente veniva chiamato, ha suscitato in me, che in quegli anni vivevo e lavoravo a Palermo, una serie di ricordi, di pensieri ed emozioni. È riemersa l’oppressione (ed è un eufemismo), in cui si viveva.

La cifra di più di mille morti e l’elenco infinito di vittime estranee alle cosche mafiose, in primo luogo dei servitori dello Stato, che noi riassumiamo, con involontaria ingiustizia per difetto, nei nomi di Falcone e Borsellino, non è sufficiente per far capire che cosa fosse la città in quegli anni. La storia di padre Puglisi rende u n’idea di questa violenza incombente e senza limiti, di questa offesa continua alla dignità umana, che al sacerdote fanno dire: «Chi usa la violenza non è un uomo, si degrada da solo al rango di animale». Di questa minaccia imminente, di questo rischio della vita, tanti erano consapevoli: persone comuni e persone più esposte per il lavoro che facevano o per il ruolo che ricoprivano. Lo erano Falcone e Borsellino, lo erano Piersanti Mattarella e Pio La Torre, lo era Padre Puglisi, che si preoccupò - come ricorda Deliziosi - di non esporre a pericolo i suoi amici: «Sì, è giusto fare e dire queste cose. Ma ora lasciatele dire e fare a me. Io non ho moglie e figli. Non intromettetevi».

E di quei rischi eravamo consapevoli tanti altri che, per un caso o, per chi crede, per un disegno della Provvidenza, non siamo stati colpiti dalla violenza mafiosa. Nel libro ho trovato una definizione felice di questo stato di cose assurdo, che ha investito per oltre venti anni la vita di milioni di persone in tutta la Sicilia: da un lato l’escalation delle minacce e degli atti di violenza, dall’altro i giovani e i tanti parrocchiani che cercavano di portare avanti «una normalità ormai impossibile». Penso che in quegli anni tanti, tantissimi, hanno cercato di portare avanti, a Palermo e in Sicilia, una «normalità impossibile». Proprio per questo è giusto ripetere in ogni occasione che lo Stato italiano, cioè tutti noi, ha sconfitto la Cosa nostra corleonese, la mafia delle stragi.

Una sfida durata troppo a lungo, che è costata troppe vittime e troppi sacrifici, ma che è stata vinta senza leggi eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei codici. Anzi l’omicidio di padre Puglisi, il 15 settembre 1993, assieme alle bombe piazzate a Roma a San Giovanni («cuore della Roma cristiana») e a San Giorgio al Velabro, il 27 luglio 1993, rappresentano - come giustamente sottolinea Deliziosi - una intimidazione a tutta la Chiesa e una risposta alle parole pronunziate da Giovanni Paolo II ad Agrigento poche settimane prima, il 9 maggio. Queste parole colpirono profondamente i mafiosi, perché denunziavano direttamente una delle ipocrisie chiave nella falsa rappresentazione che le mafie danno di sé: quella di essere una vera religione, coerente e compatibile con quella cattolica, ancora così importante nelle nostre regioni. E alle parole di papa Wojtyla seguiranno quelle dei vescovi siciliani, nel 1994: «Mafia e Vangelo sono incompatibili, la mafia appartiene al regno del peccato» e poi molte altre, fino alla formale scomunica da parte di Papa Francesco nella piana di Sibari. E quelle parole i mafiosi le ricordavano ancora 12 anni dopo.

Appena due giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II, uno dei grandi boss di Cosa Nostra diceva (c’è l’intercettazione): «Poverino che era. A parte quella «sbrasata» (sparata, ndr) che ha fatto quando è venuto qua. Una sbrasata un pochettino pesante per i siciliani in generale». Neanche la morte aveva placato il risentimento dei «padrini». Naturalmente la vittoria processuale sulla mafia corleonese è frutto anche di una battaglia culturale, decisiva per la vittoria su tutte le mafie. Su questo punto cruciale l’esempio di padre Puglisi rimane di assoluta attualità. Egli lucidamente diceva: «Dobbiamo aiutare il bambino, il preadolescente, anche l’adolescente, perché forse lì ci dobbiamo fermare, perché con l’adulto è molto difficile. Aiutarli ad avere senso della propria dignità, a vedere che nel gioco ci sono regole da seguire, che non è giusto barare e chi bara perde la stima degli altri». E aggiungeva: «Io ci credo a tutte quelle forme di studio, di protesta, di corsi, perché questa è la diffusione di una cultura diversa, perché la mafiosità si nutre di tutta un’altra cultura, la cultura dell’illegalità. Non dobbiamo tacere, bisogna andare avanti. Ciò che è un diritto non si deve chiedere come fosse un favore». Parole ancora attuali, non solo a Palermo.

E a questo proposito tornano in mente le parole di Paolo Borsellino, che invitava a parlare comunque, in ogni occasione, della mafia, perché la mafia cerca il silenzio, il nascondimento, la disinformazione, come dimostra, in ogni parte d’Italia, l’esperienza attuale. Quelle di padre Puglisi non erano parole vane, ma generavano effetti inaccettabili per i mafiosi. Non era un illuso. E la sua frase più famosa, «se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto», segue l’affermazione piena di realismo con cui mette in guardia i suoi amici: «Le nostre iniziative devono essere un segno. Non qualcosa che può trasformare Brancaccio. Questa è un’illusione che non possiamo permetterci». A queste parole vorrei affiancare quelle di due altri grandi siciliani. Giovanni Falcone: «Si può sempre fare qualcosa» dovrebbe essere scritto sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto». Piersanti Mattarella, in un discorso ai giovani: «Non vi lamentate se il personale politico della Dc siciliana è mediocre e impresentabile, perché la responsabilità più grande e più grave è quella degli onesti e dei capaci che se ne lavano le mani e non si impegnano per cambiare le cose». Aggiungendo poi che, per potere chiedere agli altri, la politica deve avere «le carte in regola».

Secondo lo storico Andrea Riccardi, «Mattarella e Puglisi rappresentano due storie diverse, combattono la mafia con strumenti differenti, in quadranti diversificati. Ma c’è una forza di speranza nella loro azione, che germina dal terreno cristiano. Entrambi manifestano la speranza che si può cambiare il mondo, pur quando sembra impossibile. Ma per cambiarlo partono da sé: da una vita intensa, profonda, dedicata, che non pone limiti al servizio, nemmeno quello della salvezza della propria esistenza». Riccardi si chiede pure se non si tratti di mera utopia, se alla fine, per entrambi, non si possa dire che si tratta di vite sprecate per realizzare sogni impossibili. Al di là della risposta della fede, che riguarda la coscienza di ognuno e che si basa sulla parabola, cara a padre Puglisi, del chicco di grano che se non cade e marcisce non dà frutto, anche in una logica laica gli esempi di Piersanti Mattarella e di padre Puglisi, uniti a tanti altri, hanno portato frutto. Non solo per quella che ho definito la sconfitta processuale della mafia corleonese, ma anche sul piano decisivo della crescita culturale. Uno studioso non cattolico, Isaia Sales, scrive che oggi è cambiata la percezione della mafia nella pubblica opinione, specie nella società civile meridionale. Fino a non molto tempo fa «mafia» non coincideva affatto con «criminalità»; si poteva essere mafiosi senza sentirsi né essere considerati delinquenti. Oggi non è più così. Nessuno più oserebbe parlare di una «mafia buona». Si tratta, credo, di un cambiamento di fondamentale importanza, determinato certo dalle stragi e dalle migliaia di vittime, ma anche dall’esempio positivo di tanti, a cominciare naturalmente da quello, eroico fino al martirio, di padre Pino Puglisi.

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