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Diciotti, non ci fu nessun ordine formale per lo stop allo sbarco

Per dieci giorni la nave Diciotti non ha trovato un porto in cui sbarcare i migranti salvati al largo di Malta. A Lampedusa no. A Catania neppure. Alla fine tutti sono scesi a terra: prima i minori non accompagnati e le donne da curare, poi tutti gli altri. Chi ha dato lo stop, chi ha impartito gli ordini, chi ha consentito lo sbarco? La «catena di comando» sembra avvolta dalle nebbie. Un ordine formale non è stato mai impartito. Nessuno sembra avere detto chiaramente al comandante della nave, il capitano di fregata Massimo Kothmeir, quale rotta seguire e come gestire i migranti trattenuti a bordo, a parte l’assistenza umanitaria. Una spiegazione non si trova tra le carte e le testimonianze dell’inchiesta sul ministro Matteo Salvini, unico indagato per sequestro di persona aggravato.

Il Tribunale dei ministri, presieduto da Fabio Pilato, si trova così di fronte a un nodo aggrovigliato e fumoso. Non il primo comunque. Da giorni i giudici stanno cercando di dare una soluzione al problema della competenza. Resterebbe a Palermo se il luogo in cui è arrivato lo stop fosse, come finora si è creduto, il mare di Lampedusa. Si sposterebbe a Catania se si
accertasse che la disposizione sia invece arrivata in quel porto, dove la Diciotti è poi attraccata.  La questione è aperta perché l’inchiesta non è ancora risalita lungo la scala gerarchica attraverso la quale l’ordine del blocco si sarebbe diramato fino ad arrivare al comandante della nave.

Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, si è convinto che anche in assenza di un ordine formale la responsabilità del blocco sia del ministro Salvini che sin dall’inizio si era politicamente schierato contro lo sbarco immediato e prima di un accordo sulla distribuzione dei migranti.

Salvini sarà sentito ma solo nella fase conclusiva dell’inchiesta quando il quadro delle responsabilità dovrebbe essere più chiaro. Al momento la mancanza di un ordine comporta, come conseguenza inevitabile, un allungamento dei tempi. I giudici stanno infatti programmando, sui vari fronti della vicenda giudiziaria, una lunga attività istruttoria. Sul tavolo c'è la richiesta messa a punto dalla Procura distrettuale di Palermo di una serie di esami testimoniali attraverso i quali si
cercherà di dare un senso ai contatti di routine tra la Diciotti, i comandi della Guardia costiera e il ministero dell’Interno.

Il nome del comandante della Diciotti, dal quale il tribunale si attende un decisivo contributo chiarificatore, apre la lista
delle persone da sentire. A palazzo di giustizia gira un elenco non ufficiale e neppure definitivo. Comprende, tra gli altri, il capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, che la Procura di Agrigento aveva qualificato come indagato mentre per quella di Palermo è un teste. E poi i comandanti delle capitanerie di porto di Porto Empedocle e di Catania, il responsabile dell’ufficio circondariale marittimo di Lampedusa, il capo del Dipartimento delle libertà civili, Gerarda Pantalone, e il suo
vice Bruno Corda. L’elenco potrebbe diventare più nutrito in relazione alle esigenze di approfondimento e di riscontro dell’inchiesta del Tribunale dei ministri.  Dopo l’interrogatorio di Salvini, che chiuderà la fase degli accertamenti, il passaggio successivo sarà l’archiviazione del caso oppure la richiesta di autorizzazione a procedere da inviare al Senato. In tutto i giudici hanno 90 giorni di tempo.

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