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Baudo, premio alla carriera al GdShow: "Sentivo Modugno e volavo anche io"

Pippo Baudo

Suo padre comprò il primo televisore quando Modugno vinceva Sanremo con «Nel blu dipinto di blu». Un presagio forse, sicuro un'ispirazione. «A prima vista, quelle mani alzate al cielo nel gesto di “volare” era come se mi invitassero a fare altrettanto... a volare pure io».

Questo Pippo Baudo glielo ha raccontato quando lui e Mimmo sono diventati grandi amici, mentre scrivevano insieme canzoni. Le volte in cui la madre «preparava il polpettone, la pasta con le sarde, per riportarmi a casa».

Era il ’58 e Roma era distante dalla Sicilia molto più dei chilometri che le separavano. «Partire da Catania per fare televisione era un sogno al limite dell'inconcepibile, poi tutto si è inanellato come le perle di una collana e io, passi avanti su passi avanti, ci sono passato dentro». Senza mai rischiare di arrivare perché, seppure «un traguardo c'è sempre, anche quando è simbolico, anche se è apparente», Pippo Baudo ha spostato il suo in quell’aleph che avrà sempre, suo malgrado, un oltre da realizzare.

La laurea è stata il suo biglietto per Roma, la tangente pagata a suo padre...

«Avevamo un accordo e devo essergli grato per l'insistenza nel pretendere che lo rispettassi. Sapere serve sempre, lo so io che ho studiato molto per fare quello che ho fatto. Vorrei dirlo agli impreparati di oggi, a chi crede di aver raggiunto chissà che successo per il solo fatto di apparire in televisione. Una volta per entrare in quella scatoletta dovevi essere il più preparato di tutti, il percorso di selezione era spietato».

Sono stati più importanti i sì o i no?

«Ogni sì l'ho sempre ragionato bene. L'unico senza pensarci l'ho detto quando mi hanno invitato a fare il primo Sanremo (nel ’68). Lì onestamente lo dissi sull'onda dell'entusiasmo. Ma quando ho preso il treno da Milano e sono arrivato a Sanremo, mi è passato davanti tutto il suo mondo di gloria e... ho avuto un tuffo al cuore. Ho realizzato che ero stato avventato, troppo giovane per qualcosa che aveva già tanta vita. E mentre mi chiedevo se fossi all'altezza venne un dirigente Rai a dirmi: “Baudo, lei stasera si gioca tutta la sua carriera”».

Giusto per metterla a suo agio...

«Devo dire però che a fine serata l'ho raggiunto e gli dissi: “Guardi, io la serata l'ho fatta e ho constatato una cosa... che lei è il più cretino tra i dirigenti Rai”. Poi lui capì, si scusò e stranamente diventammo amici».

Sanremo è diventata la sua terra dei record…

«Ho sempre considerato Sanremo come l'Università della canzone Italiana, il trampolino da cui ho lanciato cantanti enormi come Carmen Consoli, Fiorella Mannoia, Giorgia, Bocelli. Ma oggi forse non lo è più. Ricordo che quando sentii la canzone di Simone Cristicchi, “Ti regalerò una rosa”, gli dissi: “Non sei nessuno, ma io con questa canzone ti porto a Sanremo e tu vinci il Festival”. Lo vinse, in un momento di grande poesia. Nella sezione giovani invece lo stesso anno c’era Fabrizio Moro con “Pensa”. Lui allora faceva il portabagagli in un albergo di Roma, un giorno sono andato a mangiare lì. Si avvicinò e mi disse che scriveva canzoni, lo invitai nel mio ufficio, ascoltai “Pensa”, gli dissi che quel pezzo era per Sanremo e la sua vittoria tra i giovani mi diede ragione. Mi prendevo la responsabilità, mi sentivo competente».

Tredici Festival e varie direzioni artistiche dopo, il quattordicesimo lo farebbe?

«Litigherei con tutti. Questa roba non la gradirei, questo repertorio non mi convince, cercherei di portarlo agli antichi splendori e non ci riuscirei. Capisco le difficoltà che incontra il mio amico Claudio Baglioni nel fare un cast. L'anno scorso sono stato suo ospite e ho constatato la materia che c'è. Lui raccoglie dal terreno che trova e ora purtroppo è arido. Io, d'altra parte, ho scoperto il ruolo di ospite d'onore: mi invitano, vado, parlo, dico quello che penso, non nascondo assolutamente nulla e mi diverto».

E se dovesse giudicare le canzoni di oggi?

«Non sarei capace, non le capisco! Non riesco proprio a capire dove sia la canzone. Infatti durano una stagione e appassiscono. Ritornelli senza slancio, senza costrutto: otto righe e questa è la canzone. E non basta giustificarla con l’urgenza del ritornello perché “Nel blu dipinto di blu” aveva una strofa breve ma poi si lanciava in quel “Volare” che non stavi più nella sedia! Questo non avviene quasi più ed è un peccato».

Le manca il “motivo”?

«La canzone mi manca. Quella italiana e la sua costruzione classica che non andrebbe deturpata».

La Sicilia le manca?

«Mai ignorare la propria origine. Io con Militello, il mio paese, ho un rapporto di contatto continuo, sento il sindaco. Quando vado lì nella mia casa, sento il senso dell'appartenenza. Mi affaccio dal terrazzo e guardo la sua parte più bella, si vede anche il mare. E respiro un'aria antica, come tornassi con mio padre, mia madre, i parenti. Io questo cordone non voglio romperlo, non lo farò mai. Un giorno questa terra sarà bellissima».

Anche con Taormina (dove tornerà il 15 settembre ospite del GDShow) custodisce un legame…

«A Taormina ho passato momenti di bellezza unica. Ma la serata più bella fu quando per festeggiare la Commedia all'Italiana vennero Manfredi, Sordi, Gassman, Tognazzi e la Vitti: immaginate il quadretto! Per commemorare Il Gattopardo, Delon con la grande orchestra diretta da Pippo Caruso sulle musiche di Nino Rota. Su quel palcoscenico abbiamo fatto cose impossibili, con costi inesistenti, venivano tutti gratis. Dario Fo, per dire, che non andava da nessuna parte, venne da me gratuitamente. È un teatro magico quello lì...».

La scena perfetta per celebrare la sua carriera…

«Ricevere un premio del genere è una lotta tra orgoglio e malinconia. Significa che per quanto grandi e lunghi, gli anni sono passati. Purtroppo la vita ha un suo corso e un suo percorso che, se potessi, ricomincerei da capo».

Chi le manca tra quelli che non ci sono più?

«Pippo Caruso, senza pensarci. È mancato un anno fa e mi manca tutti i giorni. Un grande artista, che ha scritto cose bellissime, col quale avevo una sintonia creativa pazzesca».

Costanzo festeggiando i suoi ottant’anni ha detto che sono un’età per guardare al futuro ma spesso anche al passato, che la voglia è ancora come una malattia che non passa…

«Una maladie d'amour, maladie de ma jeunesse».

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