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L’Italia a fari spenti dei 4 moschettieri

D i Maio, proprio lui che prova a dettare procedure costituzionali o alleanze a destra e manca, addita l’ego smisurato di Renzi, facendo finta di non capire che il «noi contro tutti» prima maniera adesso si ritorce contro il suo movimento, chiamato a fare sistema e non più a romperlo.

Renzi, uscito impettito e di cenere cosparso dalla porta principale di un partito ormai imploso, è rientrato neanche troppo quatto quatto dalla finestra, continuando a dettarne la linea fra passeggiate in piazza e passaggi in tv, complice il raccogliticcio gruppo dirigente attuale.

Salvini, capitano di un centrodestra del quale è prigioniero più che condottiero, si balocca con selfie e slogan populisti sui social, ma deve fare i conti con la sua condizione di leader senza troppi margini di movimento dell’unica vera coalizione a troppe anime oggi in campo.

Berlusconi, forse il più sconfitto fra gli sconfitti del 4 marzo, è pronto ad allearsi con chiunque, tiene serrate le residue truppe forziste e riesce a condizionare l’intero agone politico, nei panni del martire degli altrui diktat, condizione che a queste latitudini fa sempre appeal.

Nelle mani di questi quattro capricciosi e rancorosi moschettieri della (Prima, Seconda o Terza, poco importa) Repubblica, c’è più che mai la sorte di un Paese che viaggia a fari spenti verso un destino ai più ignoto. Percorrendo – queste sì, certificate e assodate – le malmesse strade di conseguenze (più che congiunture) avverse: produzione e occupazione che rallentano, consumi che si raffreddano, fiducia delle imprese ai livelli più bassi dell’ultimo lustro.

E una scadenza altrettanto certa e imminente, a meno di un – auspicabile ma oggi poco prevedibile – cambio di rotta perentorio, in un Paese che già oggi patisce una pressione fiscale fra le più alte d’Europa: l’aumento automatico dell’Iva già programmato per inizio 2019 e legato a quelle norme-capestro di salvaguardia sulle quali o si interviene in Finanziaria (ma chi e quando dovrà vararla?) oppure diventano mannaia per il mondo delle imprese e dunque per l’intero sistema economico. Famiglie in testa.

Dobbiamo arrenderci passivamente all’ineluttabile oppure possiamo ancora aspettarci uno scatto di coscienza più che d’orgoglio, mosso dalla consapevolezza del bene comune, più che dalle muscolari prove di forza degli interessi di parte?

Il sistema politico italiano è finito in un buio cul de sac. Per le stolte scelte del recente passato: la legge elettorale con cui si è andati alle urne il 4 marzo è uno dei più scellerati e autolesionisti parti parlamentari degli ultimi decenni.

Per gli atteggiamenti passivi e distruttivi del mesto presente: il fuoco incrociato di veti, ripicche e vendette ha trasformato le consultazioni del povero Mattarella in un redde rationem più che in un bisogno di trovare produttive intese e opportune convergenze, senza sterili primazie assolute.

E siccome tornare a votare con questa stessa legge elettorale e con questa stessa condizione politica da signorie medievali, non farebbe che riproporre domani quello che stiamo vivendo oggi, è forse necessario deporre le alabarde e uscire dalle arene. L‘esempio potrà apparire inopportuno o iperbolico, ma serve a rendere l’idea: non esiste guerra che non si possa e debba risolvere definitivamente, seguendo la via diplomatica della mediazione per impedire ulteriori spargimenti di sangue.

E noi dentro una guerra politica siamo: con vincitori che non hanno la forza sufficiente per imporre condizioni e con sconfitti che non intendono abdicare, se non salvando parte del proprio scricchiolante potere.

Il voto in Molise prima e in Friuli dopo lo dimostra: «politico» o «localistico», a seconda se a leggerlo sono vincitori o sconfitti. Il tanto decantato governo di tregua al quale lo stesso Mattarella non ha voluto finora guardare, convinto – bontà sua – di voler tutelare il costituzionalmente inoppugnabile primato della Politica, torna ad essere oggi l’unica via d’uscita plausibile dal pantano. Al Colle la consapevolezza sta rapidamente maturando.

E di tempo ormai ne rimane pochissimo. Anzi, forse è il caso di dire che gli attuali quattro rancorosi moschettieri non ne meritano altro. Urge un governo «terzo» scevro da interessi di parte da tutelare e garantire, ma proiettato verso un percorso di bene comune, rapido e concreto, in tre tappe: Finanziaria, nuova legge elettorale e (solo dopo, assolutamente dopo) ritorno al voto.

Senza la prima, saremmo alla catastrofe economica. Senza la seconda, prolungheremmo la paralisi gestionale. E vanificheremmo la terza e ultima tappa. L’unica con la quale gli italiani possono prendere atto del fallimento di vinti e vincitori. E tornare a dire la loro su questo triste melodramma che è l’Italia che viaggia a fari spenti nella notte del 2018.

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