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Battaglia per il piccolo Alfie a Londra, l'Italia gli dà la cittadinanza e spera nel trasferimento al Bambino Gesù

LONDRA. Si combatte a cavallo fra l’isola e la penisola, fra la Gran Bretagna e l’Italia, l’ultima battaglia per Alfie Evans: il bambino inglese di nemmeno due anni, colpito da una patologia neurodegenerativa grave, ma mai diagnosticata esattamente, a cui la giustizia e i medici britannici hanno deciso di staccare la spina contro il volere dei due genitori poco più che ventenni, Tom e Kate.

A Liverpool, nell’ospedale pediatrico Alder Hey, tutto è pronto - nonostante le proteste di una folla di qualche centinaio di manifestanti - per il distacco dai macchinari salvavita. Ma il governo italiano, con una mossa a sorpresa firmata oggi dai ministri uscenti Angelino Alfano e Marco Minniti, è entrato in campo concedendo la cittadinanza al piccolo: nel tentativo di bloccare la procedura e provare a riaprire la partita per il suo trasferimento al Bambino Gesù di Roma che - con la benedizione del Papa - si è dichiarato disposto da tempo a continuare ad assistere Alfie.

La sfida si consuma in queste ore in un intreccio di emozioni, nodi legali, interrogativi etici e valutazioni politiche. Anche se i precedenti recenti del Regno Unito, da quello di Charlie Gard a quello di Isaiah Haastrup, non sembrano lasciare spiragli rispetto all’epilogo già decretato dalle corti di Sua Maestà. Tanto più che anche gli ultimi ricorsi bis della famiglia di fronte alla Corte Suprema di Londra e, oggi, alla Corte Europea di Strasburgo dei Diritti Umani, si sono scontrati contro il muro dell’inammissibilità.

In queste ore, la concessione della cittadinanza italiana - salutata positivamente da vari esponenti politici come Giorgia Meloni o Daniela Santanché e da diverse organizzazioni cattoliche - ha indotto comunque il giudice d’appello britannico Anthony Hayden, colui che materialmente ha decretato il via libera all’addio ad Alfie nel nome del suo «miglior interesse», a consultarsi per telefono con i rappresentanti legali dei genitori. Un passo che allontana se non altro ancora un po' l'ora X, già fissata per il pomeriggio di oggi.

«Mio figlio adesso appartiene all’Italia, io sono qui e qui resto, continuo a lottare come Alfie continua a lottare», ha commentato papà Tom, uscendo brevemente dall’Alder Hey per arringare gli oltre 200 sostenitori della sua battaglia, in testa gli attivisti pro-life dell’'Alfie Army', rimasti per tutto il giorno a protestare dinanzi all’ospedale di Liverpool: non senza momenti di tensione con la polizia culminati in parziali blocchi stradali e nel tentativo d’irruzione di un gruppetto. «Io non mi arrendo», ha insistito Tom, invitando a evitare disordini, ma aggrappandosi come ultima speranza ai suoi «contatti» con le autorità e l’ambasciatore italiano. Oltre che a quel barlume di coscienza che le immagini del piccolo sembrano testimoniare.

Parole alle quali fa eco il silenzio dall’interno del struttura sanitaria, dove i medici mantengono il riserbo. E dove non è stata ammessa stamane neppure Marcella Enoc, presidente del Bambino Gesù, giunta da Roma per tentare di annodare un dialogo che - come ha detto - potesse permettere di «abbassare i toni», d’andare oltre «le singole battaglie» e avviare una discussione «culturale» con «al centro la persona che soffre». Ma che alla fine ha potuto solo parlare con Tom e Kate, per "portar loro la vicinanza di Papa Francesco e dei tanti genitori che si trovano nella stessa situazione».

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