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Trattativa Stato-mafia: per i giudici 1993 snodo decisivo, sullo sfondo i politici della Prima Repubblica

PALERMO. La notizia della condanna a 12 anni al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia non l'ha sorpreso affatto. Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia che sta scontando sette anni per concorso in associazione mafiosa, avrebbe incassato senza una smorfia. E non si sono per nulla stupiti i legali degli altri imputati chiave: gli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito che in questi 5 anni di dibattimento hanno sostenuto le ragioni degli ex vertici del Ros dell’Arma, Mario Mori in testa, condannati alla stessa pena dell’ex manager di Publitalia.

Di «pregiudizio» della corte d’assise che ha emesso il verdetto parla Milio che annuncia battaglia in appello. «Era tutto scritto - spiega - Basta dire che oltre duecento documenti di cui abbiamo chiesto l'acquisizione sono rimasti fuori dal processo per decisione della corte d’assise».

E pronto a impugnare un verdetto definito storico da molti è anche il legale di Marcello Dell’Utri, l'avvocato Giuseppe Di Peri che giudica inconciliabile l'assoluzione ormai definitiva dell’ex senatore nel processo per concorso in associazione mafiosa per le contestazioni successive al 1992 e la sentenza di ieri, che sottolinea, invece, proprio il ruolo ricoperto dall’ex manager nella cosiddetta trattativa dal '93 in poi.

In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza - i giudici si sono presi 90 giorni per il deposito, termine comunque non perentorio - è evidente che per la corte il '93 sia uno snodo decisivo. I magistrati infatti segnano una cesura. Un prima e un dopo. Dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio i carabinieri del Ros, forti di coperture politiche che, sicuramente, verranno chiarite nella ricostruzione dei giudici, avrebbero avvicinato la mafia di Riina attraverso l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, compaesano e vicino agli stragisti corleonesi. Un dialogo finalizzato a fermare le stragi, secondo una prima tesi, divenuto poi nello stesso impianto accusatorio un mezzo per destabilizzare il Paese, che avrebbe comunque rafforzato la mafia.

Il reato è minaccia a Corpo politico dello Stato, uno Stato che si trova a essere vittima del ricatto stragista dei clan e , al tempo stesso, sponda dei boss. Una dicotomia che si coglie bene nel verdetto che condanna gli imputati a risarcire con 10 milioni la Presidenza del Consiglio costituita parte civile. Se l’istituzione è parte offesa, chi "coprì" il Ros fu complice. Nomi nel verdetto non ce ne sono: ma per i pm ad avere consentito la trattativa, garantendone il successo anche attraverso un alleggerimento della lotta ai clan come le revoche del carcere duro per centinaia di boss, sarebbero stati personaggi come l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi e l’ex Guardasigilli Conso. Tutti evocati al dibattimento, tutti morti.

Dopo il '93 - i carabinieri sono stati assolti per le contestazioni successive a quell'anno - sarebbe entrato in gioco Marcello Dell’Utri, portavoce della minaccia mafiosa presso il suo referente politico e amico di una vita Silvio Berlusconi. Non a caso, ieri, il pm Nino Di Matteo, magistrato storico dell’inchiesta, ha sottolineato che la sentenza segna una continuità nei rapporti tra i clan e il Berlusconi imprenditore e quello politico. Rapporti mediati da Dell’Utri che è anche tra i fondatori di Forza Italia.

Il verdetto, che vede anche un assolto eccellente, l’ex ministro dc Nicola Mancino accusato di falsa testimonianza, sarà impugnato, ma «rischia» di avere un effetto non trascurabile su un altro processo: quello all’ex ministro Calogero Mannino, giudicato e assolto in primo grado in abbreviato dal reato di minaccia a Corpo politico dello Stato. La motivazione della sentenza potrebbe arrivare prima della fine del giudizio d’appello a Mannino, prevista per dopo l’estate. E che avrà un peso sulla decisione della corte lo credono in molti.

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