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Scandalo Facebook, Zuckerberg rompe il silenzio: "Sono io il responsabile"

Mark Zuckerberg

NEW YORK. «Sono io che ho lanciato Facebook e sono io il responsabile di tutto quello che accade sulla nostra piattaforma": Mark Zuckerberg rompe finalmente il silenzio sullo scandalo dei dati personali raccolti e sfruttati per scopi politici. E, nel giorno in cui negli Usa scatta la prima class action, lancia un piano d’attacco perché casi come quello della Cambridge Analytica non accadano mai più. Se non sarà così, scrive a chiare lettere sulla sua pagina personale, "non meritiamo di essere al vostro servizio».

Il lungo post arriva dopo ore frenetiche vissute nel quartier generale di Menlo Park, dove per ore e ore i top manager del gruppo hanno lavorato con i legali per mettere a punto fino all’ultima virgola la dichiarazione dell’ex ragazzo prodigio della Silicon Valley. Parole che si spera soddisfino per il momento quella richiesta di spiegazioni e di trasparenza che arriva da tutto il mondo, e soprattutto dai mercati. Ma l'auspicio è che si plachino anche l’ondata di indignazione dell’opinione pubblica e la frustrazione dei dipendenti del colosso dei social media, mai così palpabile per i viali del campus. Allontanando le voci di altre teste pronte a cadere dopo quella del responsabile per la sicurezza informatica Alex Stamos, con qualche analista che azzardava l’ipotesi di un clamoroso passo indietro dello stesso presidente ed amministratore delegato di Facebook.

La società era tornata a difendersi martedì sera, affermando di essere stata ingannata sulla raccolta delle informazioni personali degli utenti: una dichiarazione che per lo meno sembra essere riuscita ad evitare un’ulteriore giornata di passione per Facebook a Wall Street, dove dall’inizio dello scandalo ha bruciato ben 50 miliardi di dollari. Il danno più grave però sembra essere quello di immagine, e la perdita di fiducia da parte di quel popolo di Facebook che si è sentito raggirato, con i propri dati utilizzati per fini politici, che si tratti del referendum sulla Brexit o dell’elezione di Donald Trump. Nel mirino è una gestione della privacy troppo lassista da parte del gruppo dirigente, almeno fino al 2015. Ed è su questo punto che insistono i promotori della causa collettiva avanzata presso la corte distrettuale federale di San José, a due passi dalla Silicon Valley, alla quale ora chiedono i danni.

«Abbiamo fatto degli errori, molto è stato già fatto ma c'è ancora molto da fare», ha cercato di rassicurare Zuckerberg, indicando le prossime mosse per rafforzare il sistema di protezione: a partire da un’indagine approfondita su tutte le app che hanno accesso ai dati di Facebook, soprattutto su quelle operative sulla piattaforma prima del 2014. «Bandiremo gli sviluppatori che non non sono in regola e non saranno d’accordo con le nostre regole», spiega, assicurando che il loro numero sarà comunque ristretto. A tal proposito dice che il numero di dati personali che bisognerà dare per accedere a una app sarà ridotto al nome, la foto e l’indirizzo email: niente di più. Inoltre ci sarà la possibilità per gli utenti di controllare tutte le app che hanno sottoscritto e di revocare in ogni momento ad ognuna di loro il permesso di usare i propri dati.

Intanto a rafforzare il possibile legame tra il datagate di Facebook e il trionfo del tycoon alle urne nel novembre del 2016 c'è anche la storia raccontata da Chris Wylie, la talpa che con le sue rivelazioni ha provocato il terremoto. Per l’ex dipendente di Cambridge Analytica, intervistato dal Washington Post, il programma per la raccolta di dati su Facebook fu avviato nel 2014 dalla sua ex società sotto la supervisione di Steve Bannon, l’ex stratega politico di Trump. Fu dunque l'allora numero uno di Breitbart News - entrato nel board di Cambridge Analytica e divenutone vicepresidente - la mente di tutto. Tre anni prima il suo incarico alla Casa Bianca, Bannon cominciò a lavorare a un ambizioso progetto: costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui testare l'efficacia di molti di quei messaggi populisti che furono poi alla base della campagna elettorale di Trump. Fu sempre Bannon a far avere a Cambridge Analytica, dove rimase fino all’agosto 2016, i finanziamenti dei suoi ricchi sostenitori, a partire dalla famiglia miliardaria dei Mercer.

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