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Non solo tragedie, la Valle del Belice cambiò pure nome

Una veduta dei ruderi di Poggioreale dopo il terremoto del Belice

La terra tremò, le case crollarono, molti morirono. Disastro e tragedia. Drammi, dai volti insanguinati, dai volti disfatti per la fatica della ricerca e, poi, dai volti invecchiati per l’attesa di normalità. E se tutti i terremoti si somigliano mentre avvengono, poi ciascuno prende la propria strada.

Per quello della Valle del Belìce la conservazione della memoria chiede qualche particolare di cui non si sa o di cui si parla poco. A partire dal nome.

Il precipitarsi dei cronisti del Continente sui luoghi coinvolti portò in tv un altro terremoto, piccolo, ma odioso. Parlarono del Bélice e non del Belìce. Spostarono indietro l’accento, sulla e, e tutti andarono loro d’appres - so. Anche i colleghi siciliani, rispettosi di quelli del Nord. Ed ebbero fortuna.

Oggi infatti si continua a dire Bélice, proprio come sta per imporsi definitivamente Nuòro e non il corretto e originario Nùoro. Potenza di quei “geornalisti” televi - sivi vocati alla geografia disinvolta. I soccorsi coinvolsero gli uomini in divisa della Stato e molti volontari. Tutti alla ricerca di un fiato che rivelasse una vita tra le macerie. Nella lotta contro il tempo anche i carabinieri erano lì e ciò era normale. Uno di essi, qualche anno dopo, mi raccontò con gli occhi umidi per la rinnovata umiliazione, di quando si ritrovò oggetto di ispezione.

Era tra le macerie alla ricerca dei sopravvissuti. Con lui altri, anche qualche operatore tv. Giunse un ufficiale, già noto e poi tragicamente celeberrimo eroe: Carlo Alberto Dalla Chiesa. Guardò lui e i suoi colleghi e li ammonì: avevano gli anfibi sporchi e c’era la televisione. Alcuni sopravvissuti furono ospitati nei primi giorni in qualche vagone della Stazione Centrale di Palermo. Era stato organizzato un servizio di sussistenza e di conforto. Anche le sigarette. Anche lì molti i volontari. Fui testimone del dialogo che riferisco in dialetto e che è esemplificativo di come alcuni siciliani fatichino ad essere amici delle soluzioni. Due terremotati. Il primo: ”Mi fineru ‘i sigaretti”.

Il secondo: “ Iàmuli a pigghiari”. Il primo: “Ma chi ddici? Nni l’hannu a purtari iddi…” e le chiese al più vicino dei volontari. E’ amaro, ma la Sicilia genera anche pochi, ma perniciosi professionisti di vario tipo. E se non li ha li importa. Vediamo. Quando montò la giustificata rabbia per i ritardi nella sistemazione abitativa dei sopravvissuti senza tetto, questi decisero di “assediare” il Palazzo Reale, sede del Parlamento siciliano. Anch’io ero indignato, come molti e ci andai. Erano migliaia. Venivano da Gibellina, da Santa Ninfa, da Poggioreale, dalla Valle del Belìce insomma.

E constatai con piacere e sorpresa che in loro aiuto e solidarietà erano giunti anche i parenti emigrati al Nord. Che fossero parenti me lo dicevano gli abiti indossati, molto “siciliani” dell’entroterra, e che fossero emigrati al Nord, in Emilia, me lo diceva l’accento della parlata. Inequivocabile. Le forze dell’ordine ovviamente presidiavano. La pena e la passione mi pulsavano nel cuore. Era la mia Sicilia che chiedeva che lo Stato, la Regione, esistessero e fossero all’altezza dei bisogni dei cittadini in gravissima difficoltà. Striscioni e urla. Dignità di protesta. Poi la scena mutò e scoppiò il finimondo. Partì un primo grosso sasso verso la porta del Palazzo e iniziò la guerriglia. Pietre e bastoni sembravano essersi materializzati dal nulla. La polizia reagì e, dopo ripetuti scontri, tante botte e molti feriti specialmente tra i poliziotti, riuscì a ristabilire l’ordine. Avevo seguito di nascosto, protetto dal muro che delimita il piazzale.

Non riuscivo, però, a capire come da una protesta organizzata si fosse passati ad una organizzatissima guerriglia. Trovai qualcuno disposto a parlare, a spiegarmi la metamorfosi. Così appresi che i “parenti emigrati al Nord” non erano tali. Erano “compagni” addestrati a provocare e affrontare la sommossa. Non soltanto per le sigarette quindi, ma anche per le bastonate qualche siciliano preferisce delegare. Come leggerete altrove, oggi il terremoto per qualcuno perdura. Tra le colpe, più o meno spalmabili, qualcuna è trascurata. Fatti e misfatti, dunque. La Poggioreale terremotata, ad esempio, è lì, intoccata, a raccontare la vita che fu e quella tragedia.

Visitarla oggi emoziona, suscita gratitudine verso chi ha voluto che la cittadina restasse fissata così, nella sua vita interrotta, ma con il suo passato ormai divenuto immutabile ed eterno. Una testimonianza che genera conoscenza, pathos, condivisione: cultura. Nei pressi vi è la Poggioreale ricostruita. Mani vanitose hanno voluto che avesse una urbanistica ed una architettura “intelligenti”, frutto di una pretesa creatività illuminata.

Gli abitanti, però (basta chiederglielo), affermano di trovarsi estranei, in un luogo che non racconta nulla di loro e che non consente alcuna imitazione del loro dna antropologico. Costretti a vivere all’este - ro. Peggio, forse, s’è fatto a Gibellina. Del paese crollato è rimasta una “opera d’arte”. Soltanto il manufatto di un artista, il Grande Cretto di Alberto Burri, che, incolpevole come ogni artista, ebbe la libertà di seppellire il paese in macerie nel cemento e ripartirlo con corridoi.

L’opera, dopo l’ammirato stupore iniziale, è rimasta a raccontare l’as - senza di anima, di vita, di passato. Avara di ogni empito di nostalgia. Anche tutto ciò suona come condanna per la politica. Condanna di che? Per concorso esterno in vanità velleitaria.

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