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Contro la mafia buongoverno, non solo manette

La scomparsa del sanguinario capo dei capi di Cosa nostra dà l’occasione per avviare un discorso collettivo senza pregiudizi di sorta su due versanti che guardano all’attualità e al futuro. Lo stato di salute della mafia siciliana, per un verso, e, per altro verso, la diagnosi su di noi, sulla società che viviamo. Sappiamo bene che i due versanti, storicamente, sono destinati a toccarsi, intrecciarsi e condizionarsi a vicenda. Proviamo tuttavia a tenerli separati per un attimo in modo da rivederli con occhi non troppo velati dal terribile passato che pesa sulla nostra memoria.

Iniziamo dal primo versante. Intanto non si sa fino a che punto il mantenimento da parte di Riina della carica di capo assoluto fino alla morte rappresenti solo un riconoscimento formale in un contesto mafioso che non è più lo stesso o costituisca comunque un momento di svolta per l’organizzazione di Cosa Nostra. Unanime, in ogni caso, la presa d’atto che le famiglie mafiose stanno attraversando una crisi strategica di una gravità mai registratasi prima, anzitutto per la potente repressione statale avviatasi a partire dal 1982 con la legge Rognoni-La Torre. Ricchezza, impunità e potere avevano accompagnato le carriere criminali dei mafiosi siciliani per almeno un secolo e mezzo.

La confisca dei patrimoni illecitamente accumulati, il carcere duro e a vita, nonché il sempre più difficile rapporto con le classi dirigenti in parte rigenerate e in parte impaurite dal rischio reputazionale (e penale) per eventuali accuse di collusioni criminali, hanno fiaccato se non divelto in modo irreversibile lo stesso immaginario del mafioso, perfino l’autopercezione di sè. Non più sedicenti «uomini d’onore», destinati a una vita di agi e di riconoscimenti sociali, ma belve braccate, che sì, fanno ancora paura a molti. Ma sempre meno.

Cosa succederà ora? Vi sarà una successione, un altro capo dei capi? Più verosimilmente le famiglie proveranno a riorganizzarsi in modo diverso, in un modo cioè che le metta il più possibile al riparo dal rischio di essere coinvolte in una rinnovata guerra contro lo Stato. Una Cosa nostra meno verticistica e più orizzontale, magari. Per riprendere più silenziosamente il filo degli affari, dei traffici illeciti, la caccia ai soldi. Non sarà facile, però.

Come osservato ieri da Roberto Scarpinato in un’intervista, la torta del denaro pubblico, degli appalti s’è fatta molto piccola e gli ostacoli posti dalle pubbliche autorità sono sempre più stringenti. E nel mercato della droga, la lunga stagione stragista ha reso gli uomini di Cosa Nostra soggetti poco raccomandabili come interlocutori dei grandi produttori e trafficanti di stupefacenti.

Oggi la fanno da padroni gli ‘ndranghetisti, grandi importatori di materia prima per tutta l’Europa: ai mafiosi siciliani le briciole, al più i mercati(ni) locali. Insomma, Cosa Nostra non è certamente morta con Totò Riina, ma è gravemente ammalata, fermo restando che la repressione statale non accenna a diminuire, anzi si dota di strumenti più acuminati.

E sul versante della società? Uno dei nodi tradizionalmente ritenuti - a ragione - fondamentali, cioè i rapporti tra gli interessi mafiosi e le dinamiche politiche e del consenso elettorale, sembrerebbe essersi allentato. Colpisce, ad esempio, che sempre ieri Giuseppe Di Lello, componente del primo pool antimafia guidato da Giovanni Falcone negli anni ‘80 e poi a lungo parlamentare nelle fila della sinistra, in un corsivo in un giornale romano, affermi che «nessuna persona in buona fede» può sostenere che la recente svolta a destra nelle elezioni siciliane sia stata favorita dalla mafia. Allo stato non abbiamo motivo di dubitare di queste affermazioni. Ma non per questo diminuisce il carico di responsabilità che grava sul nuovo presidente della Regione.

Se non più ipotecata dal voto mafioso organizzato, infatti, la futura azione di governo e le prestazioni della burocrazia regionale potrebbero liberare energie nuove: per farla breve, devono cambiare passo e dare risposte concrete. Senza buon governo e con le sole manette, stiamone certi, avremo pure sconfitto i corleonesi di Totò Riina, ma non il carsico «bisogno» di mafia che ancora la società siciliana non ha estirpato del tutto dal suo modo di vivere.

 

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