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Il destino nel nome e in quel casco: così Hamilton ha superato l’idolo Senna

PALERMO. Il destino è nel nome. Papà Anthony era un gran tifoso di Carl Lewis e per questo motivo diede al figlio il nome dell’uomo a quel tempo più veloce al mondo. Ma il destino Lewis se l’è anche costruito un pezzo per volta: iniziò nel 1994, a nove anni già kartista, quando a una festa incontrò Ron Dennis, all’epoca boss della McLaren: «Mi avvicinai e gli chiesi l’autografo e se poteva aiutarmi».

La leggenda vuole che Dennis gli promise un aiuto e lo tenne d’occhio negli anni successivi. Vide, Ron Dennis, un giovane ragazzo ambizioso vincere 15 gare su 20 in Formula 3. Poi dominare la Gp2. E a quel punto lo chiamò in McLaren per il 2007, chiudendo un cerchio e consegnando alla storia la leggenda del primo ragazzo di colore a salire sulle macchine più veloci del mondo.

Il resto Hamilton lo ha fatto da solo. In quella prima stagione, 10 anni fa, non si accontentò di fare da scudiero ad Alonso (che arrivava da campione del mondo 2006). E fu subito scontro. E anche in questo, agli scontri duri, Lewis Hamilton si era preparato da bambino. A 5 anni, vittima di qualche bullo a scuola, chiese al padre di iscriverlo a una scuola di karate perchè voleva imparare a difendersi. E ha fatto tutta la vita così, Lewis. Si è difeso attaccando. L’unico record che non ha battuto è quello della vittoria del mondiale alla prima stagione, vittima dello scontro con Alonso a Interlagos quando a brindare fu Raikkonen. Dall’anno dopo e fino a ieri sono però stati solo record distrutti.

Ha vinto un mondiale all’ultima curva contro Massa. Poi ha sofferto la crisi McLaren e per una cifra faraonica è passato nel 2013 in Mercedes per sostituire Schumacher. E fu staffetta per davvero. Dal 2014 a ieri ha vinto tre mondiali. Ora è un quattro volte iridato come solo Prost e Vettel sono riusciti a essere. Ma in quest’anno ha battuto il record di pole position di Schumacher, diventando davvero l’uomo più veloce della storia: ha fatto una pole in ogni circuito in cui ha corso. È un pilota atipico, probabilmente il primo driver 2.0 della Formula 1.

Presentissimo sui social, maniaco dei selfie, vive come una star del cinema fra un gran premio e l’altro passando da una festa a Montecarlo a un party a Hollywood sul suo aereo privato. È circondato da modelle: famosi i suoi flirt con cantanti e top di Victoria’s secret. È un po’ il James Hunt moderno, anche se nella schiena si è fatto tatuare un crocifisso enorme che il campione del ‘76 non avrebbe mai voluto. Ha vinto. E bisogna mettere giù il cappello davanti a uno che quest’anno ha battuto una Ferrari che viaggiava col vento in poppa e con un pilota, Vettel, che è abituato meglio di lui a gestire la pressione.

Invece è proprio su questo che probabilmente ha avuto qualcosa in più: nei momenti decisivi ha giocato come al gatto col topo facendo innervosire (con successo) Vettel. Ma quando è toccato a lui tenere i nervi saldi (come a Spa, a Singapore e anche ieri) non ha sbagliato nulla. Si vincono soprattutto così i mondiali oggi. Chissà se nel destino ha anche i sette titoli di Schumacher? Lui forse non ci pensava nemmeno quando ha iniziato a correre. Quel bambino che volava sul kart aveva un cascio giallo, lo stesso di oggi, perchè era il colore del casco di Senna. E ora ha un mondiale in più di Ayrton.

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