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Calcio a lutto, morto Bersellini: guidò l'Inter alla conquista dello scudetto nel 1980

PRATO. Addio al sergente di ferro. Il calcio italiano piange Eugenio Bersellini, allenatore di un altro calcio che con Oriali, Beccalossi e Altobelli porto' l'Inter di Ivanoe Fraizzoli allo scudetto numero 12, nel 1980.

"Fu un innovatore in materia di preparazione atletica: il suo più grande insegnamento è che per vincere servono sacrifici", ricorda oggi 'Spillo' Altobelli, che a quel sergente di ferro ammette di "dovere tutto". E' morto a Prato, dove viveva, a 81 anni, dopo alcuni giorni di ricovero per una polmonite.

"Ci lascia un patrimonio imano inestimabile", dice tra le lacrime la figlia Laura. "I suoi ragazzi dell'Inter, come li chiamava papà, lo avevano soprannominato 'il tigre'. Ma dietro quella maschera da burbero, c'era un uomo dolcissimo". In quasi quarant'anni di carriera sulle panchine di tante squadre, Bersellini aveva legato il suo nome soprattutto ai successi dell'Inter in un quinquennio a cavallo degli anni ottanta - con lo scudetto anche due Coppe Italia, l'ultima nell'82 prima del congedo - nell'era degli estri di Evaristo e della vita da mediano di Oriali.

Particolare non indifferente, la sua Inter forni' cinque giocatori alla nazionale campione del mondo proprio nell'82, e tra loro anche Bergomi. Bersellini lo lancio' in A a 16 anni e un mese, record assoluto nella storia interista, ammettendo che "uno cosi' non l'ho mai allenato". Aveva visto giusto, i baffi e il soprannome di 'zio' il difensore avrebbe vinto il mondiale a soli 19 anni. Emiliano di Borgo Val di Taro, dopo la carriera di calciatore conclusa nel '68 al Lecce, Bersellini iniziò nello stesso club quella da tecnico, in Serie C.

Il debutto in A giunse con il neopromosso Cesena nel '73, ma la prima "grande" fu appunto l'Inter del presidente Ivanoe Fraizzoli, che lo chiamò nel '77 portandolo via alla Sampdoria. Vi rimase per cinque stagioni e, con giocatori come Gabriele Oriali, Ivano Bordon, Evaristo Beccalossi, Giuseppe Baresi e, appunto, Altobelli, vinse lo scudetto nell'80 e due Coppe Italia, nel '78 e nell'82.

In seguito, guidò il Torino, di nuovo la Samp (con cui arrivò la Coppa Italia nell'85) e la Fiorentina, per poi iniziare a girare l'Italia e non solo: nel '99, infatti, si trasferì a Tripoli dove fino al 2001 fu ct della Libia. Quindi, il ritorno in Italia con l'ultima panchina nel 2006 nella formazione ligure della Lavagnese, in Serie D.

Dopo la notizia della scomparsa, sono presto giunti i messaggi di cordoglio, tra cui quelli dell'Inter ("vicini al dolore della famiglia"), del Torino ("apprezzatissimo uomo di sport"), della Sampdoria ("un pezzo della nostra storia") e della Fiorentina ("addio sergente di ferro del calcio"). "Sergente di ferro" era appunto il soprannome che si era guadagnato in virtù dei suoi metodi d'allenamento.

"In realtà perché decideva tutto lui - precisa però Altobelli - Perché credeva fortemente in quello che faceva, anche a costo di sbagliare. In effetti, oltre ad essere un grande tecnico, insisteva molto sulla preparazione atletica e all'epoca, in questo senso, fu un innovatore: aveva già introdotto lo stretching, ad esempio, nessuno lo faceva. Certo, poi c'erano anche ritiri dal venerdì fino alla metà della settimana successiva... Ma per vincere servono sacrifici e questo è il più grande insegnamento che ci lascia".

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