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Approvata la riforma del Codice Antimafia: polemiche e braccio di ferro Orlando-renziani

ROMA. Tra infinite polemiche e un braccio di ferro ancora in corso all’interno del Pd, l’Aula di Palazzo Madama riesce ad approvare la riforma del Codice Antimafia con 56 no, 30 astenuti e appena 129 sì (di cui solo 7 di Ap): il minimo storico di un voto della maggioranza al Senato su un provvedimento. Risolta con il voto definitivo dell’Assemblea la disputa tecnica che aveva tenuto impegnata la Camera Alta nelle ultime 24 ore nel tentativo di sanare l’irregolarità di una norma di copertura del ddl, i senatori licenziano il provvedimento che ora dovrà tornare alla Camera per la terza lettura.

E qui, anche se la presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti (Pd) assicura che verrà subito inserito in calendario, è quasi certo che il testo non riuscirà ad approdare a breve in Aula: il ddl è stato inserito nel calendario per la ripresa dopo la pausa estiva, senza peraltro che sia stata indicata una data certa.

Il Guardasigilli Andrea Orlando, presente nell’emiciclo al momento del voto, si dichiara soddisfatto per il risultato e ostenta ottimismo e determinazione quando afferma che secondo lui «ci sono le condizioni per andare fino in fondo». Rispondendo poi agli attacchi - i più duri dei quali arrivano dal vertice Dem con Orfini che parla di testo «invotabile, intriso di neogiustizialismo e insopportabile» - dice di sapere che «ci sono opinioni diverse» anche tra i magistrati, ma che "si verificherà se i rilievi mossi siano fondati» o meno. «Nel caso - assicura - faremo una ricognizione serena e se saranno necessarie delle modifiche si vedrà dove introdurle».

Al di là dell’ottimismo di Orlando, molti renziani non nascondono che alla Camera il progetto di legge, che estende le misure di prevenzione come la confisca dei beni anche a corrotti e stalker, potrebbe finire su «un binario morto». Con i prevedibili ringraziamenti di FI e del centrodestra che, contro il ddl che mette a rischio il patrimonio del Cav accusato di corruzione in atti giudiziari per la vicenda delle Olgettine, hanno alzato un fuoco di sbarramento passando dall’ostruzionismo all’attacco anche contro Orlando. Più volte infatti i senatori azzurri, tra i quali Maurizio Gasparri e Anna Maria Bernini, interrogano il ministro ("con fare quasi intimidatorio" commentano i senatori Pd) su «come mai non abbia ricevuto la relazione» firmata dal numero uno dell’Anac Raffaele Cantone in cui si esprimono perplessità sulla riforma perché il sequestro dei beni «è già possibile in presenza di episodi reiterati di corruzione».

Ma è lo stesso Cantone a spiegare ai cronisti che è plausibile che la sua relazione non sia arrivata al ministro perché era stata consegnata al Comitato scientifico, che è un organo intermedio e che sta ancora esaminando quanto prodotto dai 16 tavoli tematici nati in occasione degli Stati Generali contro la criminalità convocati da Orlando lo scorso settembre.

Ma se renziani e centrodestra dicono no alla riforma, il M5S, prima chiede che venga tolto (invano) il limite introdotto al Senato che prevede la confisca dei beni dei corrotti solo in presenza del reato associativo, e poi sceglie la via dell’astensione o del non voto. Sinistra Italiana e Mdp, invece, dicono sì, anche se Doris Lo Moro osserva come sia «triste" vedere la politica «non serena» nel legiferare su questi temi visto il suo frequente coinvolgimento in casi di corruzione. La riforma, che ha avuto il primo sì nel 2015, riceve il plauso della ministra Anna Finocchiaro ("è strumento importante nella lotta a criminalità e corruzione") e della presidente Antimafia Rosy Bindi ("Risultato importante, superate le obiezioni tardive").

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