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Voto in Gran Bretagna, May costretta a una fragile alleanza

LONDRA. Cinque seggi in più degli exit poll per salvare la poltrona. Finché dura. Theresa May prova a tirare dritto come nulla fosse dopo la scoppola elettorale che l'altra notte l'ha fatta apparire quasi tramortita di fronte alle telecamere. Resta, per ora, alla guida del Partito Conservatore e annuncia un nuovo governo con il sostegno degli unionisti nordirlandesi del Dup, indispensabile a garantire una micro maggioranza in Parlamento.

L'obiettivo dichiarato é dare "certezze" a un Paese spaccato come non mai. E soprattutto presentarsi in sella, per quanto fragile, all'avvio del negoziato con l'Ue sulla Brexit, di qui a "dieci giorni". I propositi vengono snocciolati adesso con aria quasi penitente.

Senza la baldanza da "leader forte", o presunta tale, sbandierata in campagna elettorale. E del resto, a soffiare sul collo, con insistite richieste di dimissioni, c'é il fiato di Jeremy Corbyn, capo improvvisamente indiscusso di un Labour rigenerato da un recupero impressionante di seggi e di voti: tre milioni in più, in buona parte raccolti fra i giovani, attratti dal verbo di un socialista non pentito 68enne che dice no all'austerity e sì a un nuovo welfare per tutti.

Il risultato finale delle urne certifica in ogni modo che l'azzardo di May, la scelta di anticipare il voto, non ha pagato. I Tory strappano la maggioranza relativa, ma perdono quella assoluta che invece la premier - convinta da media e soloni di establishment di avere di fronte un Corbyn perdente predestinato e "unelectable" (ineleggibile) - avrebbe voluto consolidare e di molto.

Portano tuttavia a casa 319 seggi (contro i 314 previsti dagli exit): sufficienti, con il soccorso dei 10 vassalli del Dup, a venire a capo dell'Hung Parliament, del Parlamento bloccato, e a superare la soglia minima di 326 su 650 ai Comuni. Un brodino, se si considera l'avanzata del Labour (cresciuto di un 9,5% e di una trentina di seggi), in un panorama di forte affluenza (68,7%, record dal 1997) nel quale, in termini di consenso nazionale, i due grandi partiti, o "le due tribù", come dice Laura Kuenssberg, notista politica della Bbc, sono tornati a polarizzare la scena, entrambi sopra la storica quota 40%.

Lasciando agli altri le briciole: maluccio gli indipendentisti scozzesi dell'Snp (referendum addio); al palo i LibDem filo-Ue; alla deriva gli euroscettici dell'Ukip. Ma é un brodino che Theresa May intende farsi bastare. "Al lavoro", ha cercato di farsi forza stamane dopo aver riottenuto l'incarico dalla regina, indicando la volontà di difendere il Regno dal terrorismo e di avviare la Brexit: che forse non potrà essere più così 'hard' come proclamato nei comizi, ma che insiste di voler attuare nel rispetto "della volontà popolare" e "dell'interesse nazionale".

A Bruxelles e nella altre capitali europee l'attendono al varco, fra scetticismo, punture di spillo e inquietudine. Mentre la sterlina cala. Lei conferma intanto tutti e 5 i ministri chiave (Boris Johnson agli Esteri, Philip Hammond cancelliere dello Scacchiere, Amber Rudd all'Interno, Michael Fallon alla Difesa e soprattutto David Davis alla Brexit), a testimonianza di quello che appare un arrocco, più che un nuovo inizio.

Quindi, intervistata in tv, ammette senza giri di parole di non aver raggiunto l'obiettivo. "Volevo una maggioranza più ampia e il risultato non è stato ottenuto", osserva in omaggio all'evidenza, dicendosi "dispiaciuta" per il partito e facendo una sorta di mea culpa per "i candidati, i deputati uscenti e i sottosegretari" non rieletti.

"Le riflessioni" sull'accaduto - e l'autocritica sugli scivoloni che le vengono imputati da più parti, dalla 'dementia tax' al resto - le lascia però per il futuro. Un futuro che i Tory, soavemente spietati per tradizione, le concedono chissà fino a quando. William Hague, ex leader e ministro degli Esteri che quella tradizione ha sperimentato sulla propria pelle, glielo ricorda fra il serio e il faceto: "Il nostro partito - ammicca - è una monarchia assoluta, temperata dal regicidio".

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