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L'ex direttore dell'Fbi Comey: Trump ha mentito, Mosca interferì sul voto

NEW YORK. Il giorno più lungo per Donald Trump. In diretta tv, davanti al Congresso e all’opinione pubblica mondiale, l’ex direttore dell’Fbi James Comey accusa il presidente americano di averlo licenziato per non aver ceduto alle sue pressioni, per non aver mollato le indagini sull'ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, coinvolto nel Russiagate. Ma l’accusa che più fa male al tycoon è un’altra. E’ quella quella di essere stato «un bugiardo": "L'amministrazione ha semplicemente mentito, ha deciso di diffamare me e l’Fbi» per giustificare la mia cacciata, si sfoga Comey. Che rilancia anche l’allarme sulle interferenze di Mosca: "Non c'è alcun dubbio che la Russia abbia interferito nelle elezioni americane. E lo farà ancora».

Appare molto stanco l’ex numero uno del Bureau investigativo, ma preciso e determinato nel rispondere al fuoco di fila di domande che per circa tre ore gli pongono i senatori della commissione intelligence che indagano sui presunti legami tra Mosca e Trump. Quest’ultimo segue gli sviluppi attaccato allo schermo del televisore, nella Dining Room della Casa Bianca. E’ circondato da qualcuno dei suoi più fidati collaboratori, ma soprattutto dai suoi legali che hanno un sola missione: blindarlo. E’ furente infatti Trump, ma niente tweet, vietati. A parlare sarà un suo avvocato a fine audizione, rigettando le accuse e spiegando che «Trump non ha mai chiesto lealtà a Comey» e che nei suoi comportamenti «non c'è stato nulla di inappropriato», non avendo «mai suggerito all’Fbi di mettere fine alle indagini su qualcuno».

Le sole parole del presidente in questa drammatica giornata sono quelle pronunciate nel corso di un evento in un hotel di Washington, dove Trump interviene mentre ancora va avanti la testimonianza di Comey: «Siamo sotto assedio, ma questo non ci farà mollare, emergeremo più forti che mai. Combatteremo e vinceremo. La verità prevarrà».

Ma le parole dell’ex capo dell’Fbi pesano come macigni, e alimentano i mal di pancia dei repubblicani e lo spettro dell’impeachment. Anche se al momento quasi tutti gli osservatori ritengono l’ipotesi remota.

Il clima però è sempre più cupo attorno allo Studio Ovale. Nella stanza a fianco, la Green Room, è avvenuta l’imbarazzante cena 'tete a tetè con Comey il 27 gennaio scorso, quella in cui il presidente pretese lealtà dal capo dell’Fbi. Che, finito il colloquio, prese appunti. Non lo aveva mai fatto in precedenza con Barack Obama e George Bush, ma di Trump - racconta Comey - non si fidava: «Temevo che avrebbe potuto mentire». «E se davvero ci dovessero essere le registrazioni di quelle chiacchierate - aggiunge - Dio voglia che Trump le pubblichi». Ora quei memo, assicura, sono nelle mani del procuratore speciale nominato per coordinare le indagini sul Russiagate, Robert Mueller.

L’ex capo dell’Fbi confessa poi come fu proprio lui a mostrare alcuni di quegli appunti a persone fuori del Dipartimento di giustizia, a un amico che poi le passò a un giornalista: «L'ho fatto proprio per innescare la nomina di un procuratore speciale» e garantire il prosieguo di un’indagine indipendente.

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