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Niente "pennichella" nell'orario di lavoro: si rischia il licenziamento

ROMA. 'Tolleranza zero', dalla Cassazione, per quei lavoratori che durante l’orario di servizio si organizzano per predisporsi a una bella dormita invece di svolgere le loro mansioni. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, «l'addormentamento organizzato», durante il turno lavorativo, ha una «evidente contrarietà ai doveri fondamentali del lavoratore rientranti nel cosiddetto 'minimo etico'» e viola i «principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro» e per questo merita di essere punito con il licenziamento, soprattutto quando si presta un servizio di "essenziale rilevanza».

Così gli 'ermellini' hanno licenziato su due piedi un addetto alla vigilanza della società Autostrade accogliendo il ricorso del datore di lavoro contro la sentenza con la quale la Corte di Appello de L’Aquila, con un verdetto 'clemente', aveva riammesso in servizio Denny E. dopo l'espulsione decisa dal Tribunale di Teramo perchè era stato sorpreso a dormire in macchina anziché  a pattugliare.
L’uomo si era messo d’accordo con il collega - giudicato in un’altra causa - con il quale doveva vigilare il percorso tra Ancona e Roseto degli Abruzzi a bordo della stessa auto di servizio in modo che in due sarebbero stati in grado di condurre "interventi operativi pericolosi come l’asportazione di ingombri derivanti da residui di collisioni».

Invece la 'coppia' si era servita di «due veicoli diversi, utilizzati per trascorrere dormendo alcune ore di servizio», circa due, distesi sui sedili anteriori, senza dare alcuna notizia alla centrale operativa.
Secondo la Cassazione - sentenza 14192 - questo comportamento non può essere 'oblatò da una semplice 'multà, come quella della decurtazione dello stipendio, per la «delicatezza dei compiti che il lavoratore avrebbe dovuto svolgere» e per la "gravità della interruzione del servizio determinatasi a causa di un addormentamento, oltretutto neppure dovuto a causa improvvisa e imprevista, ma 'organizzatò con l’altro lavoratore della squadra». I supremi giudici hanno ripristinato il più severo verdetto di primo grado condannando anche il dipendente licenziato a pagare tremila euro di spese legali.

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