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Moni Ovadia con Camilleri nella Sicilia degli anni '40: il debutto al Sistina

ROMA. «La prima volta che ho incontrato Andrea Camilleri, mi ha detto: 'Devo confessarti che ho compiuto un crimine molto grave contro di te. Ogni tanto racconto le tue storielle e le spaccio per mie'».

Ride Moni Ovadia mentre lo racconta.

Oggi, in qualche modo, il conto con lo scrittore siciliano, papà del Commissario Montalbano, è 'pari' con Ovadia mattatore de «Il casellante», testo che Camilleri con Giuseppe Dipasquale ha riadattato per lui dal romanzo edito da Sellerio.

Dal debutto all’ultimo Festival di Spoleto, lo spettacolo, diretto dallo stesso Dipasquale e con le musiche originali di Mario Incudine, arriva a Roma dopo una stagione di grandi applausi, portando anche per la prima volta Ovadia sul palcoscenico del Sistina, il tempio della commedia musicale italiana, da domani e fino al 28 maggio.

«Non lo avrei mai pensato. E’ uno dei numerosi regali arrivati con questo testo», racconta. D’altronde, lo confessa, mai avrebbe pensato neanche di stringere amicizia con Camilleri. «E' accaduto nel 2015 - racconta - quando con Mario Incudine, portai al Teatro greco di Siracusa Le Supplici di Eschilo in ottava rima siciliana e innesti di greco moderno. Eravamo talmente spaventati che andammo da Camilleri a cercare una benedizione».

Da quell'incontro nacque l’idea di portare in scena Il casellante e «di tornare a mettermi in bocca il siciliano, lingua che ho a lungo frequentato e addirittura sentito parlare prima dell’italiano».

Dei romanzi di Camilleri Dipasquale aveva già diretto Il birraio di Preston e La concessione del telefono, ma questo, inserito nel ciclo cosiddetto 'mitologico', dopo Maruzza Musumeci e prima de Il sonaglio, «fra tutti i libri di Camilleri è forse il più divertente e struggente insieme».

Ambientato in una Sicilia anni '40 arcaica e moderna, comica e tragica, ha per protagonisti due innamorati, Nino e Minica (Mario Incudine e Valeria Contadino). «Lui fa il casellante per vivere, ma il musicante di barberia per non morire», in un mondo «colorato e picaresco», affollato di note e avventori, in cui Ovadia che «indossa» ben cinque personaggi, passando dal narratore alla buffa mammana, dal giudice al barbiere (''una scelta economica, non artistica», dice lui ridendo).

E con la lingua di Camilleri che, ancora una volta, diventa una teatralissima sinfonia di parlate, una «sicilitudine» di neologismi e modi di dire. Ma proprio quando la Mammana, interpellata dagli sposi, riesce a far loro il dono di un bambino in arrivo, ecco la violenza deflagrante della guerra e quella stupida e ottusa del fascismo, con un nuovo casellante, che stupra Minica, cercando di ucciderla per non lasciare tracce.

«Disperata per aver perso il bambino - prosegue l’attore - lei cercherà di diventare albero e si farà innaffiare, perché se non potrà avere figli, almeno darà frutti».

Ma la metamorfosi non è completa ed ecco che dall’esplosione di una bomba, viene fuori, «incolume e solo, un fantolino miracolosamente scampato a tante barbarie. Camilleri - conclude Ovadia - ha il dono di essere un classico, intenso e umoristico insieme. Ma qui, mentre con il suo talento racconta il femminicidio, la vita che torna, la violenza che prova a rubarla, non è solo un grande scrittore. Qui ha anche uno sguardo toccante e di grande commozione verso le donne. E il pubblico, soprattutto femminile, lo sente e se lo porta via con sè».

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