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Le pericolose commistioni fra imprese e cosa pubblica

Un connubio sistemico, finalizzato alla corruzione, fra imprenditoria e politica. Le parole pronunciate ieri dal procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia sconfinano fatalmente dai margini dell'operazione che ha portato agli arresti e agli indagati eccellenti di cui parliamo oggi con ampia evidenza e hanno il peso di un amaro teorema in grado da solo di far ripiombare l'intero «sistema Italia» negli anni bui della corruzione ad alti livelli.

Perché la sensazione che se ne ricava, se i contenuti dell'inchiesta durata dieci mesi dovessero essere confermati in sede processuale, è che il tangentismo che ha ammorbato per decenni il rapporto fra pubblico e privato non sia morto e sepolto – nelle sue forme più estreme e, appunto, sistemiche – dopo le grandi inchieste degli anni Novanta, ma abbia continuato a proliferare più o meno sotto traccia.

E siccome la vicenda trapanese (i cui reflussi raggiungono anche i governi regionale e nazionale) non è certo una semplice sporadica goccia infetta in un mare cristallino di legalità e trasparenza, ma ha piuttosto i contorni di una rinnovata e diffusa «abitudine» che non sembra risparmiare nessuna area geografica del Bel Paese, eccoci al connubio sistemico di cui parla Petralia e che regola (ancora) oggi ad ampio raggio i rapporti fra impresa privata e potere politico-burocratico. Rapporti che dovrebbero essere di leale e produttiva convivenza e invece scadono troppo spesso al rango di torbida e speculare connivenza.

In cui finisce per non essere neanche più chiara la differenza fra il corruttore e il corrotto, in una commistione di ruoli in cui a guadagnarci devono comunque essere tutti, fra scambi di favori, mazzette, regali di lusso o posti di lavoro. Almeno fino a quando i magistrati non mangiano la foglia e le forze dell'ordine non bussano alle porte. Resta da capire quali sono i margini di operatività – in un siffatto sistema – da parte di chi vuol fare impresa e per questo avere rapporti con la cosa pubblica seguendo le regole. Perché in un libero mercato in cui concorrenza e competizione dovrebbero premiare il più bravo o il più capace, la variante del clientelare do ut des fa saltare il banco, gli equilibri e anche la sopravvivenza stessa delle imprese sane. Che non inchinandosi al diktat dello scambio sottobanco, finiscono ai margini del sistema economico e produttivo. E si ritrovano senza un futuro.

Resta poi il peso della tempistica di questa vicenda. Che piomba come un meteorite sulle elezioni amministrative, appena 24 ore dopo la notizia della richiesta dell'obbligo di soggiorno per Antonio d’Alì, compromettendone di fatto il regolare svolgimento. Al punto che da più parti si invoca un rinvio del voto a Trapani, con un candidato agli arresti e un altro che ha deciso di sospendere la sua campagna elettorale dopo la notifica del provvedimento della Procura di Palermo. Il capo di quest'ultima, Francesco Lo Voi, ha subito voluto zittire in conferenza stampa le potenziali avverse sirene della «giustizia a orologeria». Di certo però la sovrapposizione temporale degli eventi c'è ed è inopinabile. Mentre opinabile può apparire l'impossibilità di scongiurarla, quanto meno in maniera così precisa e plateale. Anche se, ribadiamo, non è più in gioco solo il voto a Trapani ma un sistema che, se confermato, smette di avere confini territoriali e torna a essere tristemente endemico.

 

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