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Da Palermo a Troina, il vento di scirocco isolano soffia sulla musica

PALERMO. Dal soul all’elettronica più calda non ci sono distanze abissali. Il territorio è sempre quello della musica black, intesa come legame ritmico con le temperature più alte dello spettro sonoro; il luogo in cui soffia questo scirocco musicale è sempre la Sicilia. Una corrente che parte dal sottosuolo palermitano, dai garage in cui le band provano e riprovano i brani che poi registreranno, e si sposta verso l’entroterra dell’isola. Da Fabrizio Cammarata e Paolo Fuschi passando per i troinesi da Black Jezus, gli esotici MNTY – si legge Montoya – e i più «intrecciati» Omosumo.

Il soul del palermitano Fabrizio Cammarata nulla ha a che vedere con tutto ciò che ruota intorno all’immaginario del genere: non ci sono sezioni di fiati, nessun organo urlante e neanche dinamitarde urla alla James Brown. Nasce dieci anni fa, sui solchi del suo primo album in studio («The Second Grace», 2007), in una veste folk intima e delicata, cucita a decine di metri sotto terra, nelle cantine cittadine in cui Cammarata suonava al fianco proprio dei The Second Grace.

Da allora, passando per il più corale «Rooms» e per il soul subsahariano di Skint and Golden, Fabrizio ha portato la sua musica in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, passando per il Messico e riportando poi tutto a casa, nella sua Palermo. Accanto a lui, nel disco più soul che abbia registrato, il chitarrista trapiantato a Manchester Paolo Fuschi. «Abbiamo dato vita a un mondo – spiega lui – che porta sulle sue spalle le rispettive carriere». Da una parte Cammarata e la sua poesia folk, dall’altra le chitarre Motown dell’anglo-siculo Fuschi. «Su quel disco il suono delle sei corde crea un’identità ben precisa – racconta Cammarata – . Mi piaceva l’idea di questo fingerpicking (il pizzicare le corde con le sole dita, ndr.) che anziché tendere l’orecchio all’occidente e alla tradizione folk del Village newyorkese s’ispirasse al modo in cui suonano la chitarra in Botswana, nell’Africa subsahariana più melodica».

Più estremo, pur essendo paradossalmente più radicato nel folk e in universo di chitarre acustiche, è il soul dei troinesi da Black Jezus, al secolo Luca Impellizzeri (chitarre e voce) e il polistrumentista Ivano Amata. Vengono entrambi da ascolti rap, pur non avendo mai rappato («Alla radice del progetto c’è proprio l’hip-hop di Eric B. & Rakim, degli A Tribe Called Quest», spiega Luca). Loro, nati nel cuore dell’Isola, in quella provincia ennese spesso agli ultimi posti nelle varie classifiche del benessere, puntano a conquistare il mercato estero con il loro primo disco in studio, in uscita il prossimo autunno. Una sound sperimentato a Troina che possa piacere agli europei, magari agli inglesi, padri della musica rock. All’attivo, al momento, hanno soltanto un EP, il cristallino «Don’t Mean a Thing» (2014), che dal momento della sua uscita è stato però adocchiato da Rockit (la rivista online li inserì in Spinga Signora Spinga, ovvero le dodici band da tenere d’occhio per il futuro) e da King Kong di Radio1 Rai. «Siamo un cocktail tra musica nera e folk bianco – racconta Luca Impellizzeri – . Una cosa un po’ strana per l’Italia, da cani sciolti. Da una parte il legno, dall’altra il campionatore, in equilibrio tra pieno e vuoto. L’album è pronto, però siamo molto pignoli, dei perfezionisti».

C’è anche qui un’afa sonora che la fa da padrone, e quella stessa aria respirano i palermitani Montoya (stilizzato in MNTY), ovvero il produttore e chitarrista Fabio Rizzo e il polistrumentista Donato Di Trapani (siamo tornati a Palermo). Rizzo, classe ’79, è conosciuto principalmente come chitarrista dei Waines e produttore artistico della 800A Records; il musicista Donato Di Trapani lo ha trascinato in un mondo elettronico in cui è possibile fare di tutto: «Campionare marimbe, sciogliere i bassi, fluidificare un intermezzo funk». A dire tutto del duo, in attesa del disco in studio, è Zwindles, il loro primo singolo: «Una canzone elettronica che da piccola aveva appeso in camera i poster dei suoi miti: Sergio Mendes, Herb Alpert e João Gilberto». Da un estremo all’altro dello spettro sonoro di cui si parlava in apertura – sempre nell’ambito di una musica che fa dei ritmi vitali il suo punto di forza – il soul cambia progressivamente pelle e si cuce addosso un altro abito più esotico. Più sudato.

Sono gli Omosumo, il trio palermitano formato dalla voce di Angelo Sicurella, le chitarre di Roberto Cammarata e le linee di basso di Antonio Di Martino, nato nel 2012 con l’EP «Ci proveremo a non farci male». Tre musicisti che arrivano da tre esperienze completamente agli antipodi: uno (Cammarata) è l’altra chitarra dei super-rock-and-roll Waines, l’altro (Di Martino) è il frontman dei palermitani Dimartino. A farli incontrare, i sintetizzatori e la voce di Sicurella. Surfin’ Gaza, il loro primo album in studio, uscito per Malintenti Dischi nel 2014, ha definito il loro sound: un ambiente umido e complesso, in cui – come scatole cinesi – un tappeto di tastiere nasconde sempre intricati giri di basso, e i giri di basso celano i più sottili ricami di sintetizzatori.

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