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Il nostro giornale e questa Sicilia, l’editoriale del condirettore che lascia dopo 34 anni

Lascio il vertice del Giornale di Sicilia. Dopo 34 anni. Una carriera intensa e felice che si conclude senza strappi perché tutto resta in ottime mani. In quelle di Antonio Ardizzone, dal quale ho avuto un sostegno costante, e di Marco Romano, la cui collaborazione è stata per me punto di forza nel difficile lavoro di questi anni. Gli elenchi di quanto si è fatto sono noiosi e inutili. Nel salutare i lettori e i colleghi voglio solo spiegare qualche ragione del perché si è fatto.

Ardizzone ed io ci insediammo quando una mafia sanguinaria e trionfante travolgeva gli uomini delle istituzioni. Appariva invincibile. Mi è sempre viva l’immagine dell’uomo che, bianco in volto, gli occhi lucidi , mi diede in aeroporto la notizia dell’assassinio di Giovanni Falcone e della sua scorta: «Se hanno potuto far questo, allora possono fare tutto». Non è stato così. La mafia non ha potuto fare tutto. E ha perso. Oggi è viva, ma appare vincibile. Nella società sono cresciuti, giorno dopo giorno, dissociazione e rifiuto. Ma la Sicilia non è cresciuta. È agli ultimi posti, in Europa , per reddito e lavoro, ai primi posti per povertà. Perché? Perché la società è cambiata molto, ma economia e politica sono cambiate poco. La prima resta a prevalente spinta pubblica, la seconda si contorce nei vecchi vizi. La trasparenza è limitata, le funzioni pubbliche non sono legate al merito, i rapporti tra istituzioni e affari non sono tutelati da controlli rigorosi. Nomine e incarichi sono legati più all’appartenenza che non alla competenza.

Prevale quella concezione delle cose denunciata dal cardinale Pappalardo: «Anche questo è mafia: quella sensazione di essere protetti da un amico o da un gruppo di amici che contano». Così ancora oggi si aprono spazi alle infiltrazioni del malaffare e delle mafie, proprio nel momento in cui mafie e malaffare rinunciano alla violenza dell’azione e scelgono la corruzione. Vedevamo insorgere, in misura crescente, il contrasto tra cittadini e politica. Tra i primi che volevano cambiare molto e la seconda che cambiava poco. Per questo siamo andati a cercare la società nei suoi angoli più vivi. Per sapere, per capire. Per far sapere, per far capire. Siamo stati «popolari» al modo di Lucio Dalla: le nostre orecchie sulla strada per sentire i «rumori del mondo».

Con Cronaca in Classe siamo entrati dentro le scuole, trasformando gli studenti in giornalisti. Col camper per le strade di Palermo abbiamo raggiunto le periferie per dare voce a chi non ha voce. Con Ditelo a Rgs, Voci della Città, col nostro sito, con i profili su Facebook e Twitter abbiamo voluto intercettare, di giorno in giorno, cittadini soli, costretti a vivere in una democrazia senza fili, davanti a un Potere a porte chiuse, con uomini e uffici spesso irraggiungibili. Abbiamo poi, in questi anni, fatto i conti con un mutamento epocale che riguarda noi: l’informazione oggi è un mondo nuovo, in cui nulla è uguale a prima. Nel 2013, 27 milioni di italiani utilizzavano il computer. Otto anni prima erano solo 2 milioni. Siamo sommersi, in un solo giorno, da una quantità di notizie che prima leggevamo in un anno.

Insorgono incognite per le economie editoriali e per i destini della democrazia in una società sempre più dominata dalla «narrazione» e dall’immaginario. Nell’oceano della Rete ci sono i vantaggi di nuove libertà e i rischi di forti tirannie. Vi sono livelli di disinformazione altissimi e da questi abusi non si hanno adeguate tutele. C’è poi il paradosso, per noi tragico, di una Rete forte perché diffonde gratis le stesse notizie che la carta stampata produce sopportando un costo. Sono necessari equilibri nuovi, difficili da raggiungere ed ancora lontani.

Ringrazio i colleghi. Tutti. Ed i lettori, quelli che mi hanno criticato non meno di quelli che mi hanno sostenuto. Ho fatto ogni sforzo per stare dalla loro parte. Ma non ho potuto evitare errori. Di questi mi scuso.

 

 

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